Bruno Osimo autore
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La Corea del sud vieta la carne di cane, ed è una notizia anche politica di
Il divieto entrerà in vigore fra tre anni. Per rafforzare il suo soft power all'estero Seul elimina uno dei più importanti motivi d'imbarazzo internazionale, ma è anche una perfetta operazione simpatia per la first lady e il presidente Yoon Suk-yeol
Solo due astenuti, 208 voti a favore e zero (zero!) contrari: l’Assemblea nazionale sudcoreana, cioè il Parlamento monocamerale di Seul, ha approvato oggi una legge di cui si parla ormai da anni che vieta l’allevamento e la macellazione di cani per il consumo umano, e anche la vendita di prodotti a base di carne di cane. La legge entrerà in vigore fra tre anni, per dare il tempo agli allevatori e ai ristoranti sul territorio nazionale di chiudere o trasformare il loro business – già molto in difficoltà da un qualche anno.
In realtà è difficile quantificare il numero esatto di allevamenti esistenti in Corea del sud: i dati delle associazioni del settore dicono che sarebbero attualmente attivi fra i tremila e i quattromila allevamenti, ma secondo gli attivisti il numero non supererebbe il migliaio. L’industria ha sempre cercato di pompare i numeri per dimostrare che il contraccolpo economico sarebbe stato troppo duro da assorbire per il paese in caso di divieto totale, quello che però oggi è arrivato ufficialmente.
Del resto per le strade della scintillante Seul è quasi impossibile trovare un ristorante che serva carne di cane nel menù, e i posti specializzati restano fuori, nelle campagne, frequentati soprattutto dalle vecchie generazioni. In ogni caso, già da tempo in difficoltà, come pure i pochi mercati dove si può acquistare la carne, ormai rarissimi e praticamente vietati per giovani e turisti stranieri. Per la Corea del sud che vuole mostrarsi al mondo come esempio virtuoso di paese asiatico occidentalizzato, evoluto e democratico, l’allevamento e il consumo di carne di cane è da anni motivo di imbarazzo. Soprattutto perché nel frattempo i cani sono diventati animali da compagnia – quasi un’ossessione, si direbbe, e non è difficile incontrare per le grandi città cagnolini a spasso su passeggini e vestiti Louis Vuitton: in generale, come pure accadde in Cina, il cane è diventato a tutti gli effetti un animale da compagnia, e non più cibo, oltre che lo status symbol di un certo tipo di benessere economico.
L’approvazione della legge è una grande vittoria per l’Amministrazione del presidente Yoon Suk-yeol ma soprattutto una sorta di operazione simpatia nei confronti della coppia presidenziale, che da tempo precipita nei sondaggi di gradimento, e dell’attuale first lady, l’eterea Kim Keon-hee. Sin dall’inizio del mandato di Yoon, nel maggio del 2022, Kim si è trasformata in un’attivista per l’ambiente e la protezione degli animali, e aveva promesso l’approvazione di questa legge.
Da tempo gran parte della politica sudcoreana ruota attorno ai cani. Poco più di un anno fa l’ex presidente sudcoreano Moon Jae-in era stato “costretto” a dare via due Pungsan bianchi, Gomi e Songgang, che gli erano stati donati dal leader nordcoreano Kim Jong Un durante un summit tra i due nel 2018. Dopo che Moon aveva finito il suo mandato presidenziale, aveva tenuto i due cani ma continuava a ricevere il sostegno economico governativo per questo – sostegno che Yoon, appena eletto, aveva cancellato. Per giorni sui giornali coreani si era parlato dei due cani che erano diventati motivo di scontro tra i due politici.
L'Ue potrebbe revocare i fondi usati per l'evento filoputiniano in una scuola di Aprilia di
Nel paese laziale un progetto finanziato da fondi Ue e coordinato dal un'associazione filorussa e negazionista dei crimini in Ucraina ha fatto collegare via we**am una classe di liceali italiani con una della città ucraina Lugansk, occupata dalla Russia
L'evento putiniano su Mariupol mette in crisi il Pd di Modena
Degli eventi di propaganda russa organizzati in Italia dall'associazione filoputiniana Vento dell'Est se ne è occupata anche l'Europa. Già nella scorsa settimana si era discusso della conferenza organizzata in una sala del comune di Modena sulla "rinascita di Mariupol dopo la guerra", città distrutta invece dall’occupazione a opera dell’esercito di Putin, e del caso di Bologna, dove in uno spazio pubblico era prevista la proiezione di un film di propaganda russa sull'invasione del 24 febbraio 2022. Ma a rendere necessario l'intervento della Commissione europea è stato l'ultimo episodio, quello di Aprilia, dove nell'ambito di un cosiddetto "scambio culturale" finanziato con fondi Ue una classe del liceo Meucci si è collegata via we**am con una classe di un liceo di Lugansk, città ucraina occupata dall’esercito di Putin. Un incontro coordinato sempre da Vento dell'Est, associazione culturale impegnata da tempo nel diffondere sul territorio italiano eventi di "controinformazione", ossia di sostegno all'invasione russa.
Stamattina il portavoce Ue per le politiche regionali Stefan De Keersmaecker, rispondendo a una domanda sul tema, ha parlato della possibilità di “revocare i fondi” con cui è stato finanziato lo scambio culturale del liceo di Aprilia. “Non c’è spazio per iniziative di disinformazione e propaganda a beneficio di paesi terzi”, ha affermato De Keersmaecker. “La Commissione potrebbe mettere in campo dei correttivi finanziari per reclamare quei fondi, se l’uso che ne è stato fatto non rispetta la politica di coesione dell’Ue”.
Si tratta della prima reazione europea agli eventi organizzati da Vento dell’Est in Italia, un atto dovuto ma che rischia di far apparire il nostro paese come un ventre molle per la propaganda di Putin, che sta cercando con sempre più insistenza spazio all’interno delle sale comunali e dei luoghi pubblici. La buona notizia è che in si inziano vedere le prime nette prese di distanze da parte delle istituzioni che erano cadute nel tranello di ospitare queste iniziative.
A Modena stamattina il Consiglio comunale ha revocato la sala che avrebbe dovuto ospitare l'incontro su Mariupol, su proposta del sindaco Muzzarelli, dopo giorni di polemiche e pressioni da parte delle associazioni italo ucraine e dell'ambasciata di Kyiv a Roma. Mentre ieri, a Bologna, il sindaco Matteo Lepore ha escluso dalla sua coalizione i Verdi, che avevano protestato contro la decisione di convocare gli organizzatori per convincerli ad annullare la proiezione del film di propaganda russa finanziato dal governo di Putin.
In Russia è rimasta una sola forza di opposizione, inaspettata
di
Gli attacchi ucraini contro Belgorod hanno anche un obiettivo elettorale, in un voto dalle poche sorprese in cui si parla più di feste e nudità che di guerra
Vladimir Putin non è a caccia di voti, non servono. E’ a caccia di un clima elettorale favorevole. Non si aspetta sorprese, ma vuole che le urne non siano vuote e le strade non siano piene. Serve un grado di demotivazione tale da far pensare ai cittadini che in Russia vada tutto bene, ma questo bene è legato unicamente alla figura del loro presidente. Putin non è l’unico candidato, ma tra i volti molto noti che da anni fanno da contraltare al presidente, e facce ancora da scoprire, gli oppositori più conosciuti del presidente russo sono in prigione o sono in esilio. La ragione per cui si ritiene che il potere del Cremlino sia stabile è perché la repressione è iniziata adagio e quando era sul punto di accelerare, lo ha fatto in modo che non potesse essere più fermata. Adesso che queste elezioni si terranno con la guerra in corso, rimangono però degli oppositori ai quali il presidente russo non aveva pensato, che non cambieranno il risultato, ma sanno dare fastidio: gli ucraini.
La campagna di bombardamenti iniziata da Putin a fine dicembre è intensa. Tutti i giorni, le sirene suonano in gran parte del territorio dell’Ucraina. L’obiettivo è quello di saturare la contraerea di Kyiv e di trascinare gli ucraini alla resa. L’Ucraina però ha preso a rispondere in modo regolare e i bombardamenti diretti al di là della frontiera russa non sono sporadici. Prima Kyiv colpiva in modo chirurgico, parsimonioso, adesso questi attacchi non hanno più soltanto un valore militare. Sono colpi elettorali, che stanno portando, per esempio, il governatore di Belgorod, Vjacheslav Gladkov, a chiedere ai suoi cittadini di evacuare. Sono trecento i residenti che sono stati portati via, le vacanze natalizie sono state allungate di una settimana, e se i lanci di Kyiv dovessero rimanere costanti, è impensabile che non vengano prese altre misure. Il presidente russo continua a dire che la guerra in Ucraina non ha un impatto in Russia, che l’occidente collettivo ha cercato di colpire Mosca con le sanzioni, ma Mosca sta resistendo, che i combattimenti sono un affare degli ucraini nazisti e del governo corrotto di Kyiv. I bombardamenti di Kyiv ricordano invece che la guerra è in Russia, costringono l’esercito a proteggere il territorio russo, quindi a spostare armi che stanno usando in Ucraina, e dimostrano che la guerra non fa male soltanto al di là dal confine, ma anche in Russia. I danni e le ferite non sono comparabili – soltanto ieri la polizia ucraina ha detto che ci sono ancora più di duemila corpi che devono essere identificati, e che con i bombardamenti in aumento anche questa cifra crescerà – ma per Kyiv è importante mostrare che questa guerra non potrà tenere a riparo per sempre i russi, che invece sono concentrati su altro.
A fine anno, una festa organizzata da una presentatrice televisiva in un locale moscovita molto famoso chiamato Mutabor aveva sconvolto la società russa per il dress code dei partecipanti che si erano presentati “quasi nudi”. La festa è sotto inchiesta per promozione di idee lgbtq+, gli invitati più celebri, inclusa l’ospite, hanno dovuto fare dei video di scuse. Alcuni sono stati arrestati. Tra loro anche il cantante Vacío. La canzone più famosa di Vacío si intitola Spokojstvie, vuol dire pace, tranquillità, e canta di quanto soltanto il denaro possa garantire successo e una duratura fonte di serenità. Vacío è stato arrestato due volte, è ancora in prigione ma ha ricevuto una convocazione militare e potrebbe essere mandato a combattere in Ucraina. Il suo legale confida nel fatto che il ragazzo fosse già stato scartato per la leva e difficilmente sarà mandato al fronte. Nelle elezioni russe, si parla anche di questo: di feste “quasi nude” contrarie ai valori tradizionali, i temi li crea la propaganda.
La scrittrice egiziana Dalia Ziada costretta a nascondersi per avere preso posizione sul massacro del 7 ottobre
Ion Koman, In cammino, 1999. 50x40.t.m.su tela
Marina Cvetàeva, «È ora di togliere l’ambra»
È ora di togliere l’ambra,
è ora di cambiar dizionario,
è ora di spegner la lanterna
sulla porta...
febbraio 1941
L'Iran si fa sbugiardare dal Califfato, che rivendica l'attacco di Kerman di
Il comunicato dell'Isis mette in guardia i palestinesi: state permettendo a Teheran di rubarvi la scena. Gli americani rispondono agli attacchi alle loro basi e uccidono un generale a Baghdad. Ma ora la loro permanenza in Iraq è a rischio
Lo Stato islamico ha rivendicato il doppio attacco del 3 gennaio a Kerman, in Iran, nel giorno della commemorazione del quarto anniversario della morte del generale Qassem Suleimani. Il canale ufficiale del gruppo, al Furqan, ha diffuso un messaggio del portavoce Abu Huthaifa al Ansari in cui rivela anche i nomi e le foto degli attentatori suicidi – Omar al Mouwahid e Seif Allah al Moujahid – che si sono fatti esplodere a poche centinaia di metri dalla tomba di Suleimani. Il bilancio è stato di 84 morti e circa duecento feriti, uno degli attentati più efferati nella storia recente dell’Iran. Il comunicato dello Stato islamico è molto duro e in buona parte si concentra sulla guerra a Gaza. Quella palestinese è derubricata dal Califfato a “una piaga fra le tante”: “Non basta combattere contro gli ebrei per restare sul giusto cammino, occorre farlo anche contro i regimi arabi”. Lo Stato islamico critica i palestinesi che si sono messi alle dipendenze del regime di Teheran, “permettendogli di prendersi la scena”. La nostra “non è una guerra per il territorio o di frontiera – continua al Ansari – è una guerra di religione”. Il messaggio somiglia a un tentativo del Califfato di prendere le distanze dalle modalità con cui gli alleati di Teheran combattono a Gaza, diventata un palcoscenico per l’Iran sciita – considerato un regime di takfir, cioè di scomunicati, agli occhi dello Stato islamico – piuttosto che una guerra di liberazione.
L’attacco di mercoledì ha sorpreso il regime di Teheran al punto da rendere la sua comunicazione contraddittoria e poco coordinata. Da una parte, il governatore di Kerman, diversi leader politici e il comandante delle forze al Quds, Ebrahim Qaani, hanno incolpato Israele. Dall’altra, l’ayatollah Ali Khamenei e il presidente Ebrahim Raisi sono stati più cauti e, seppur annunciando vendetta contro i responsabili, non hanno mai nominato lo stato ebraico. I sospetti però si erano rivolti da subito verso lo Stato islamico, in particolare si sono spostati sulla sua provincia afghana, quella del Khorasan. Lì, lo Stato islamico si sente minacciato dall’Iran, perché sostiene i suoi rivali talebani. Non a caso, dopo l’attacco del 3 gennaio, le autorità iraniane hanno aumentato i controlli alla frontiera con Afghanistan e Pakistan nel tentativo di catturare gli attentatori. Il comunicato del Califfato impedisce ora all’Iran di giocare la carta dell’“attacco sionista sponsorizzato dagli americani”, ma dall’altra gli permette di spenderne un’altra predicata da sempre e che suona così: lo Stato islamico e gli Stati Uniti sono due facce della stessa medaglia, perché il primo è emerso nel momento della sconfitta di Saddam Hussein da parte degli americani.
La questione della guerra allo Stato islamico si intreccia a quanto avvenuto oggi a Baghdad, dove un missile americano, identico a quello che quattro anni fa ha ucciso Suleimani, ha colpito il quartier generale del gruppo armato filoiraniano Harakat al Nujaba, uccidendone il comandante, Abu Taqwa al Saidi. La sua milizia è fra quelle che da mesi attaccano le basi americane in Iraq e Siria.
Da metà ottobre, il Pentagono ha contato oltre un centinaio di attacchi contro le sue basi in cui circa 2.500 americani combattono ciò che resta dello Stato islamico. Sono aggressioni ormai quotidiane che hanno l’obiettivo di costringere gli americani ad abbandonare la regione. Dopo avere sconfitto il Califfato, molte milizie sciite in Iraq hanno deciso di continuare a combattere contro gli Stati Uniti, considerati una forza di invasione. Fu Suleimani a mettere questa galassia di gruppi armati al servizio dell’Iran. Fra queste c’è anche quella che era comandata da Abu Taqwa. Il generale ucciso oggi era il responsabile logistico di al Nujaba, armata, addestrata e finanziata da Teheran. Il suo vero leader però è Akram al Kaabi, che vanta amicizie importanti. In prima linea in Siria, si faceva fotografare sorridente al fianco di Suleimani e aveva legami stretti anche con Abu Mahdi al Muhandis, il comandante di Kata’ib Hezbollah, un’altra milizia filoiraniana, ucciso insieme a Suleimani nell’attacco americano di Baghdad, quattro anni fa.
L’uccisione di Abu Taqwa segna un aumento dell’intensità della reazione americana agli attacchi di questi mesi. Il prezzo da pagare potrebbe però essere elevato. Oggi, il primo ministro iracheno, Mohammed Shia’ al Sudani, ha accusato le forze della coalizione internazionale dell’attacco a Baghdad. Al Sudani è un leader debole, di fatto è ostaggio dell’Iran che da tempo gli chiede di ritirare l’autorizzazione che consente agli americani di restare in Iraq. A dicembre, il premier aveva detto di avere avviato l’iter per fare ritirare le forze della coalizione e l’attacco di oggi potrebbe velocizzare l’uscita di scena degli Stati Uniti dall’Iraq, dopo oltre 20 anni. Significherebbe lasciare una voragine in un paese fragile, conteso fra Iran e Stato islamico. Dopo il ritiro dall’Afghanistan, quello dall’Iraq darebbe un segnale ulteriore del disimpegno americano.
Dal 1936 al 1941 Marina Cvetàeva (pronuncia più o meno Zvietàieva) se l'è passata male, sei anni di fame e di dolore per l'incarcerazione della figlia in lager e del marito nelle segrete del futuro KGB. Il 31 agosto 1941 non ha retto e s'è uccisa. In questi sei anni ha scritto (relativamente poche) poesie, inedite in Italia. Le ho tradotte tutte ed ecco, ve le presento oggi in anteprima mondiale.
È ora di spegner la lanterna: Ultime poesie 1936-1941 con testo a fronte e accenti tonici segnati È ora di spegner la lanterna: Ultime poesie 1936-1941 con testo a fronte e accenti tonici segnati
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158 bombe in una mattina, ecco la risposta di Putin a chi crede che voglia la pace di
Questo è il bombardamento più intenso in quasi due anni di guerra ed è soltanto l’inizio di questa nuova campagna d’inverno russa. Il missile in Polonia e Zelensky al fronte ad Avdiivka
A Odessa i vigili del fuoco hanno tirato fuori dalle macerie tre cadaveri, una donna incinta ferita, due bambini di sei e otto anni maciullati, e un prete che stava celebrando messa si è messo a correre per scappare dal drone iraniano che ha bucato la sua chiesa. A Dnipro i missili russi hanno incendiato il reparto maternità dell’ospedale. A Kyiv sono piombati sui tetti dei grattacieli e di una fabbrica di munizioni. Le bombe della Russia sono arrivate anche a Leopoli, la città dell’ovest considerata il rifugio meno insicuro del paese, e hanno ucciso un uomo. Sono state prese di mira anche Kharkiv e Zaporizhzhia. E’ stato colpito un centro commerciale e una fermata della metropolitana. Ed è sempre Vladimir Putin il più bravo a smentire i suoi sostenitori in occidente secondo cui sarebbe pronto alla pace. Questa mattina Mosca ha lanciato un totale di centocinquantotto ordigni tra missili e droni esplosivi, e uno è finito in Polonia.
L’Ucraina è troppo grande per proteggerla tutta con le munizioni della contraerea occidentale disponibili e quarantaquattro bombe hanno bucato le difese. Quello di oggi è stato il bombardamento più esteso in quasi due anni di guerra ed è soltanto l’inizio di questa nuova campagna d’inverno russa. Il portavoce dell’aeronautica ucraina, il colonnello Yurii Ihnat, ha detto: “Non abbiamo mai visto così tanti bersagli comparire all’unisono sui nostri monitor”. I morti contati finora sono trenta e i feriti almeno centosessanta. Ihnat ha detto anche che i russi hanno usato diciotto bombardieri strategici contemporaneamente, un numero enorme che non si vedeva dai primi giorni dell’invasione totale. Secondo l’esperta Dara Massicot, che segue la Russia per il think tank Carnegie Endowment for International Peace, la capacità di Mosca di sferrare un attacco simile si spiega con i mesi di relativo stallo che l’esercito di Putin ha usato per stoccare migliaia di missili e fare la manutenzione ai propri bombardieri.
Mosca usa il tempo delle pause per riorganizzarsi, per ammassare più armi e più uomini (con la mobilitazione fantasma, che dopo le elezioni in Russia potrà diventare esplicita) che le permettano poi di ricominciare una guerra più distruttiva di quella che aveva lasciato prima dell’interruzione. E’ il motivo per cui gli ucraini hanno sempre temuto l’ipotesi di un cessate il fuoco, che secondo il New York Times il presidente russo avrebbe proposto in privato. I civili ucraini desiderano più di chiunque altro una pausa dai bombardamenti sulle loro teste e i soldati ucraini una pausa dai combattimenti al fronte, ma non possono accettare un cessate il fuoco se implica più bombe domani.
Oggi uno dei missili sparati contro l’Ucraina ha superato il confine con l’Unione europea è ha continuato a viaggiare per quaranta chilometri in Polonia, il presidente Andrzej Duda ha dovuto convocare d’urgenza il Consiglio di sicurezza e il segretario generale dell’Alleanza atlantica, Jens Stoltenberg, lo ha chiamato per dire: “La Nato resta vigile”.
Poche ore prima dell’attacco missilistico il dittatore bielorusso Aljaksandr Lukashenka partecipava a un evento organizzato dal suo governo con i bambini ucraini rapiti dai russi – secondo uno studio di Yale circa duemilaquattrocento di loro sono finiti in Bielorussia. Sono i minori per cui è stato spiccato un mandato di cattura internazionale contro Putin, e nella falsa proposta di negoziato russa – quella che continua a pretendere la “denazificazione” e la demilitarizzazione di Kyiv – non c’è alcun accenno alla loro restituzione.
Gli ucraini leggono le proposte e guardano alle azioni, per questo sanno che non possono contare su Putin – ma soltanto sulla propria forza, quella dei propri alleati e delle leggi internazionali – per far cessare le bombe e per riavere i propri figli. Per questo, oggi Zelensky era ad Avdiivka, al fronte, fra i soldati.
L'antisemitismo nei campus e il picco della cancel culture. Intervista a Greg Lukianoff di
Quali sono le eccezioni al free speech? Dati alla mano, il presidente di Fire (Foundation for Individual Rights and Expression) ci spiega l’ipocrisia delle università americane, il picco forse raggiunto della cancel culture nelle accademie e il nuovo rischio: i giovani professori
“Ormai è molto chiaro che c’è un problema di antisemitismo nell’istruzione universitaria, concentrato in particolare nelle scuole d’élite”, dice al Foglio il giornalista e avvocato Greg Lukianoff. Da tempo Lukianoff, presidente di Fire (Foundation for Individual Rights and Expression), si occupa di libertà di espressione, di cancel culture e del declino delle università statunitensi. Più di dieci anni fa ha scritto il libro “Unlearning Liberty: Campus Censorship and the End of American Debate”, dove analizza l’erosione della libertà di parola e di pensiero nelle più prestigiose università americane, nelle quali oggi si grida “Intifada”.
A Washington, all’inizio di dicembre le presidentesse di Harvard, dell’Università della Pennsylvania e del Mit, tutte Ivy League, si sono trovate a parlare davanti a una commissione della Camera. Dopo i numerosi casi di antisemitismo che ci sono stati nei campus in seguito all’attacco di Hamas contro Israele del 7 ottobre, la domanda rivolta dai deputati era semplice: invocare il genocidio degli ebrei vìola il codice di condotta interno all’università? Le presidentesse hanno titubato. La risposta evasiva, “dipende”, data da Liz Magill di Penn ha portato alle sue dimissioni, dopo che vari donatori dell’università hanno minacciato di chiudere il portafogli. La presidente di Harvard, Claudine Gay, rischia anche lei il posto.
Questo ha aperto un dibattito sul free speech, e su come la cultura degli ultimi decenni abbia portato a difendere la libertà di espressione quando si parla di distruggere Israele.
Questo quando per anni in questi stessi campus si è combattuto per zittire altri punti di vista, tra safe spaces, trigger e comicità considerata troppo offensiva (“Non vado a fare show nei campus”, diceva Jerry Seinfeld, “ai ragazzi piace solo dire ‘questo è razzista, questo è sessista, questo è un pregiudizio’”).
“Questa è stata l’ipocrisia più abbagliante mostrata dalle audizioni al Congresso”, dice al Foglio Lukianoff. “La gente ha assolutamente ragione a criticare i doppi standard che gli amministratori delle università sembrano applicare quando si parla di linguaggio offensivo nei confronti di studenti ebrei, rispetto a quando si parla invece di linguaggio offensivo nei confronti di altri gruppi. E’ difficile immaginare che Magill e Gay sarebbero state altrettanto puntigliose o avrebbero detto che dipende dal contesto se fossero state chiamate davanti al Congresso per discutere di accuse riguardanti un ambiente ostile nel campus nei confronti, per esempio, di studenti neri o Lgbt. Però, la soluzione è comunque non censurare mai”. Magill davanti alla Camera ha detto che “da sole le parole, non possono essere punite”, un richiamo al Primo emendamento della Costituzione che sancisce la libertà di pensiero e di parola. Ma, dice Lukianoff, “ci sono delle dichiarazioni che non sono protette da questo emendamento, e per ottimi motivi. Però queste eccezioni sono limitate ed esigue, e l’asticella è molto alta per i precedenti legali esistenti, anche questo per buoni motivi. Le eccezioni al Primo emendamento includono incitamento alla violenza imminente e illecita, effettive minacce, provocazioni di un certo livello, calunnie e diffamazioni. La molestia, invece, non viene definita come qualcosa di verbale, ma come un modello comportamentale. La testimonianza di Magill e di Gay sarà anche stata goffa, ma nell’insistere sulla necessità di stabilire un contesto per valutare se gli incidenti individuali abbiano violato le rispettive politiche scolastiche, sono state perlopiù corrette.
Per esempio, non tutti interpretano il famigerato slogan “From the river to the sea, Palestine will be free” o l’invocazione della parola araba per insurrezione, “intifada”, come un invito esplicito al genocidio. E, ancora più importante, anche gli espliciti inviti al genocidio, per quanto si possano trovare ripugnanti, sono protetti dal Primo emendamento fino a che non superano gli standard molto alti di cui abbiamo parlato”. Il Primo emendamento, che garantisce anche la libertà di religione e di stampa, fu adottato nel 1791 e da allora è diventato parte del dna americano.
Ma di fronte alla commissione del Congresso, Magill e Gay sembravano spaventate a esprimere la propria opinione, come se su certi temi non potessero dire quello che davvero pensano. “Probabilmente erano spinte dalla paura, paura del corpo docenti, degli studenti e dell’amministrazione. Il nostro database, Scholars Under Fire, monitora i tentativi che sono stati fatti per sanzionare pubblicamente gli accademici per motivi di espressione, insegnamento o ricerca, che dovrebbero essere protetti dalla legge americana – in breve possiamo dire che monitoriamo i tentativi di cancellare gli accademici. Tra gli oltre 1.200 tentativi che abbiamo registrato dal 2000, circa tre quarti erano interni, provenivano almeno in parte da studenti, da membri dal corpo docente, dall’amministrazione. Se ci concentriamo su questi tentativi di sanzione provenienti da gruppi interni al campus, il Mit ne aveva due, mentre Penn e Harvard ne avevano ognuna più di una dozzina”. E infatti, tra le tre, la presidente del Mit è quella che ne uscita meglio, sia nel ranking sulla libertà di espressione – altra ricerca annuale di Fire – sia nelle audizioni congressuali. Nella classifica sulla libertà di pensiero nelle università dell’ultimo anno, Harvard e UPenn erano in fondo alla lista. “Come in ogni altra organizzazione, le persone che arrivano a coprire ruoli chiave amministrativi nelle università sono solitamente consci delle dinamiche politiche interne. E quindi, dopo il 7 ottobre, molti presidenti pro Israele avevano paura di esprimersi, o lo facevano in modo attenuato, perché sapevano bene quali erano i rischi. E poi, quando è arrivato il momento di difendere le loro stesse politiche sulla libertà di espressione, è stato chiaro che non erano abituati a farlo”.
In “Unlearning Liberty”, Lukianoff parlava di come l’istruzione universitaria ha smesso di insegnare agli studenti a diventare dei pensatori critici. L’antisemitismo esplicitato e la difesa di Hamas sono anche un risultato di questo processo? “Sì, ho paura che quello che stiamo vedendo sia l’evoluzione inevitabile di un trend nell’istruzione universitaria di cui parlo in quel libro, e anche in ‘Freedom from Speech’. Simile ad altre ortodossie da campus, il punto cieco e l’ipocrisia riguardanti l’antisemitismo – soprattutto quando è messo in comparazione con la fragilità che circonda altre comunità – sembrano proprio essere un sintomo del più profondo groupthink, il pensiero di gruppo, unico, che ha caratterizzato la cultura in troppi campus americani”. Nel libro uscito quest’anno, e scritto insieme a Rikki Schlot, “The Coddling of the American Mind”, Lukianoff mostra come le buone intenzioni nate dalla richiesta di maggiore rispetto e considerazione degli altri, in particolare delle minoranze, abbia portato al diktat di non dover offendere nessuno, al concetto del safe space, e ha prodotto una generazione fragile e intollerante. Dalla fatphobia ad Hamas è un attimo.
Lukianoff vuole sottolineare che Fire è un’organizzazione super partes e apartitica. E infatti rispetto al dibattito sul wokismo diventato centrale nelle campagne elettorali, ha preso posizioni che hanno sempre come obiettivo la libertà di espressione e che colpiscono a destra e a sinistra. Fire ha denunciato in tribunale la Stop Woke Act, legge che vietava corsi contro i pregiudizi fatti nelle aziende, voluta dal governatore della Florida Ron DeSantis, che ha fatto dell’antiwokismo il cuore della sua (fallimentare) campagna elettorale per la presidenza. Ma allo stesso tempo Fire ha combattuto contro un gruppo californiano di università che “forzava i professori a insegnare ‘diversità, equità e inclusione’ anche in corsi come chimica”.
Ci si chiede se siamo arrivati a un picco. “Secondo i dati analizzati da Fire, i peggiori anni per la libertà di espressione e di parola sono stati di gran lunga il 2020 e il 2021. Rispetto ai 1.200 accademici presi di mira di cui parlavamo, circa un terzo è stato attaccato in questi due anni. Sono stati i due anni in cui si sono verificati più casi fino ad ora, un aumento del 50 per cento rispetto a quelli precedenti. Le elezioni del 2020, l’omicidio di George Floyd, le tensioni riguardanti le misure di sanità pubblica in pandemia hanno aperto nuove ferite e allo stesso tempo hanno dato nuova energia a quelle vecchie. E da allora il trend è un po’ rallentato, ma non è tornato alla normalità di un tempo. Mentre ci sono alcuni indicatori che vengono interpretati come il raggiungimento del ‘picco del woke’, c’è un motivo per cui dico che la libertà di parola è ‘l’idea eternamente radicale’: perché il desiderio di censurare e l’impulso a restringere i confini dei discorsi accettabili è la norma, è istinto umano. E in ogni generazione ci saranno persone che insorgeranno per opporsi alla libertà di parola. Che venga da parte degli studenti universitari di estrema sinistra o da parte dei legislatori repubblicani, ci sarà sempre qualcuno che vuole cancellare o squalificare i suoi oppositori ideologici invece che dialogare e persuaderli”.
Secondo Lukianoff l’ultimo decennio in cui abbiamo visto un cambio di cultura ha avuto un impatto di cui sentiremo ancora gli effetti, anche perché “le nuove generazioni di professori sono preoccupanti. Sono ancora più politicamente omogenei e ancora più ostili alla libertà di parola e alla libertà accademica, almeno secondo i sondaggi”. Secondo il rilievo fatto da Fire sul 2022, metà del corpo docenti universitario si dichiara progressista, “e sotto i 35 anni si arriva al 60 per cento. Per i docenti sopra i 55 anni, sei su dieci pensano che non sia mai permesso zittire un relatore. Tra i docenti sotto i 35 la pensano così soltanto quattro su dieci. I problemi nei campus universitari non spariranno così, da un giorno all’altro”.
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