Giulio Mozzi

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Questa è la pagina pubblica di Giulio Mozzi: scrittore, consulente editoriale, docente di scrittura

05/01/2024

«La ripetizione è un modo della variazione, o la variazione è un modo della ripetizione? Ripetere tutti i giorni la medesima serie di azioni – svegliarsi alle sette con la sveglia, spegnere la sveglia, alzarsi, andare in bagno, pi****re, lavare le mani, lavare i denti, andare in cucina, mettere su il caffè, ti**re fuori lo yogurt, tagliare una fetta dalla pagnotta, pescare dal cassetto un cucchiaino, aprire lo yogurt (sempre lo stesso yogurt, della stessa marca, bianco, non zuccherato, con meno dell’un per cento di grassi; sempre lo stesso tipo di pagnotta fatta col lievito madre, prenotata ogni venerdì e ritirata ogni sabato sempre presso lo stesso fornaio), mangiare lo yogurt spezzettando la fetta di pagnotta e intingendola, ripulire il vasetto di yogurt con il cucchiaino, sciacquare bene il vasetto sotto l’acqua corrente prima di buttarlo nel sacco della plastica, lasciare il cucchiaino nel lavello, tornare in bagno, fare la doccia (prima i capelli con lo shampoo + balsamo in confezione unica, sempre lo stesso, rinforzante, in flacone verde, con un vago odore di limone; poi col sapone liquido antibatterico, sempre lo stesso, flacone verde chiaro, le braccia e le ascelle, poi il collo e le spalle, il petto, l’inguine, le natiche, la fessura tra le natiche, la parte bassa della schiena, le gambe e i piedi; infine asciugare, prima la testa la faccia e le braccia con l’asciugamano piccolo, poi con l’asciugamano grande l’inguine e le gambe, il petto, la schiena, i piedi solo prima di uscire e riappoggiarli nelle ciabatte) –, ripetere tutti i giorni la medesima serie di azioni è un modo della variazione o della ripetizione?»

Queste sono le prime due frasi del mio racconto «Stesso, uguale, identico, medesimo», pubblicato nel numero di dicembre 2023 (uscito ieri) di «retabloid», la rassegna editoriale e letteraria curata da Oblique Studio. Chi volesse leggerlo tutto (e leggere magari anche gli altri racconti) può prelevare (gratis) «retabloid» qui:

www.oblique.it

05/01/2024

Nella maggior parte dei testi inediti che mi vengono sottoposti, al di là della storia – che quando non è piattamente imitativa può anche presentare un certo interesse –, la cosa che salta all’occhio è l’incertezza della scrittura. Non parlo solo di stile; parlo anche di grammatica e sintassi.
Tra gli eventi più comuni:
– frasi con verbi all’infinito o al gerundio il cui soggetto non è il medesimo della reggente o comunque non chiaramente individuabile;
– accumuli di cliché e di locuzioni abusate;
– pleonasmi in quantità;
– punteggiatura casuale (frequentissima la non chiusura degli incisi, frequentissime – è un uso che viene dall’inglese – le virgole dopo una locuzione avverbiale all’indizio di fare, frequentissime le mefitiche virgole tra oggetto e verbo, ec.);
– aggettivazione sovrabbondante;
– mancanza di controllo del significato delle parole;
– metafore e paragoni incoerenti («Sciorinò una cascata di epiteti», ec.);
– insensibilità palese agli effetti di senso determinati dall’ordine delle parole nella frase;
– errori di consecutio temporum;
– enfasi cercata con ogni mezzo a disposizione (dall’andare a capo continuo alle virgolette ai corsivi alle parole sil-la-ba-te, ec.);
– dialoghi ridondanti;
e così via.

È per questo che in Bottega di narrazione abbiamo cominciato, da un paio d’anni, a proporre dei corsi interamente dedicati allo stile.
Ricordo dunque che il corso «Complementi di stile» comincia tra pochi giorni. Il programma dettagliato è qui: https://bottegadinarrazione.com/complementi-di-stile/

[E che c’entra l’airone? Non c’entra per niente, è chiaro. Ma, se c’è uno che ha stile, è lui].

Photos from Giulio Mozzi's post 03/01/2024

DIECI METODI SICURI PER TROVARE UN BUO TITOLO PER IL TUO ROMANZO (NESSUNO DEI QUALI FUNZIONANTE)

Uno.
Basta una semplice ricerca con chiavi del tipo «come si sceglie il titolo di un romanzo», «come trovare il titolo per il mio romanzo», e simili, per scoprire che la rete letteralmente rigurgita di buoni consigli. Armati della consapevolezza che «la gente dà buoni consigli […] se non può più dare il cattivo esempio» (De André, «Bocca di rosa»), proviamo a fare una ricognizione. Proverò a spiegare alla fine perché tutti questi metodi non funzionano.

Due.
Cominciamo con il metodo più spiccio: due soli consigli. Lo propone il sito di «Io scrittore», il concorso-torneo per inediti organizzato dal gruppo editoriale Gems (cioè: Guanda, Longanesi, Garzanti, Bollati Boringhieri, Salani ec.):

«Ernst Hemingway i titoli dei suoi romanzi li sceglieva così: “Faccio un elenco di titoli dopo aver finito il racconto o il romanzo – a volte addirittura cento. Poi inizio a cancellarli, e a volte li cancello tutti.”
«Consiglio numero due: il metodo copiancolla. Prendete le classifiche dei bestseller degli ultimi anni. Volendo, potete restringere la selezione al genere del vostro romanzo e alle relative classifiche. Copiate pazientemente i titoli e contate le parole che ricorrono con maggiore frequenza. Scegliete i termini che meglio si adattano al vostro romanzo e combinateli meglio che potete: otterrete così un titolo che punta dritto ai vertici della classifica».

Mi pare evidente che il primo suggerimento è una banalità (chi è che non fa liste di titoli, se non è soddisfatto del titolo attuale?) e che il secondo (non mi soffermo sul suo cinismo) può portarvi a scegliere un titolo non distinguibile da tanti altri titoli, quindi non memorizzabile (una delle indubbie funzioni di un titolo è: farsi ricordare) e quindi pessimo dal punto di vista del marketing. Altro che «puntare dritto ai vertici della classifica».

Tre.
«10 modi per scrivere un titolo memorabile» s’intitola appunto una pagina del sito scritturacreativa.org, diretto da Michele Renzullo. Renzullo propone dieci tipi di titolo, ciascuno con qualche esempio (per brevità, riporto un solo esempio per titolo):

«Giocati sull’ossimoro (“Caos calmo”).
Basati sulla sinestesia (“Rumore bianco”).
Con focus sul protagonista (“Lo straniero”).
Ambigui (“Giro di vite”).
Con doppia interpretazione (“L’amica geniale”).
Forti e che richiamano il genere o un’atmosfera (“I milanesi ammazzano al sabato”).
Che giocano su paradossi (“Nati due volte”).
Giochi di parola / calembour (“Castelli di rabbia”).
Che giocano coi numeri (“Mattatoio numero 5”).
Inaspettati / strani (“Guida galattica per autostoppisti”)».

E conclude, Renzullo, raccomandando di «prestare attenzione principalmente a due cose: che il titolo non sia fuorviante; che non assomigli, o sia proprio uguale a un titolo di un romanzo già esistente».
La maggior parte dei «modi» proposti da Renzullo prescindono dal contenuto o dalla forma del romanzo e si concentrano sul puro e semplice effetto di sorpresa. Io ci andrei cauto. Per esempio, «Castelli di rabbia» (il primo romanzo di Alessandro Baricco) è un puro gioco di parole (per ca**tà, non privo di un riferimento al contenuto del romanzo). Io, sarà questione di gusti, lo trovo francamente brutto (mentre il romanzo è bello), come in generale trovo brutti, e noiosi, i titoli che sgomitano per farsi notare.
Diversamente, «Nati due volte» (l’ultimo romanzo di Giuseppe Pontiggia) è sì un titolo paradossale, ma fondato su solide radici: l’episodio di Nicodemo nel Vangelo di Giovanni (capitolo 3):

«Vi era tra i farisei un uomo di nome Nicodemo, uno dei capi dei Giudei. Costui andò da Gesù, di notte, e gli disse: “Rabbì, sappiamo che sei venuto da Dio come maestro; nessuno infatti può compiere questi segni che tu compi, se Dio non è con lui”.
«Gli rispose Gesù: “In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio”. Gli disse Nicodemo: “Come può nascere un uomo quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?”.
«Rispose Gesù: “In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce da acqua e Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quello che è nato dalla carne è carne, e quello che è nato dallo Spirito è spirito. Non meravigliarti se ti ho detto: dovete nascere dall’alto. Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va: così è chiunque è nato dallo Spirito”.
«Gli replicò Nicodemo: “Come può accadere questo?”».

Quattro.
Nel blog di YouCanPrint si trova una pagina piena di suggerimenti. Il principale è: «Un buon titolo di un libro deve essere P.I.N.C.»:

«Per aiutarti a ricordare gli aspetti più importanti a cui il titolo deve rispondere, ecco un trucco: P.I.N.C.
«Un titolo deve fare una Promessa, o essere Intrigante o rispondere ad una Necessità o semplicemente indicare un Contenuto.
«Non ci sono delle regole ferree per trovare il titolo perfetto, ma queste quattro caratteristiche sono quelle che ritroviamo più comunemente tra i titoli dei libri di maggior successo.
«Oltre a ciò, il tuo titolo ha bisogno di un gancio, una combinazione di parole che catturi davvero il lettore e lo costringa volerne sapere di più».

Parole come «trucco» o «regole ferree» a me fanno ve**re la mosca al naso; e raccomandare che il titolo sia «una combinazione di parole che catturi davvero il lettore» è un po’ come dire che per fare un buon titolo bisogna fare un buon titolo. Ciò detto, l’idea di «promessa» non mi pare sbagliata. «Intrigante» è un’idea vaga, «necessità» e «contenuto» sono secondo me caratteristiche di titoli di opere non narrative (es.: Andreini, «La conduzione dei generatori a vapore») e possono comparire in titoli di opere narrative solo per gioco (es. Amurri, «Come ammazzare la moglie e perché») o per allegoria (Del Giudice, «Atlante occidentale»).
Riflettiamo dunque sulla «promessa». Che può anche essere esplicitamente nominata nel titolo. «I promessi sposi» contiene, senz’altro, una promessa: che tutto girerà attorno al fatto che, come avrebbe detto Bruno Pizzul, Renzo e Lucia «hanno il problema di sposarsi». «La promessa» di Friedrich Dűrrenmatt è appunto la storia di una promessa, e la domanda che guida il lettore è: sarà mantenuta? Anche titoli antichissimi come «Genesi» e «Apocalisse» (che significa alla lettera: «Svelamento») contengono una promessa: ti racconto come è nato il mondo, ti svelo come – dopo una ricapitolazione di tutta la storia – finirà. «Alla ricerca del tempo perduto» è la storia di una ricerca che non si sa se troverà il proprio oggetto (lo troverà, ma sarà diverso da come atteso): una promessa c’è, e sarà delusa (ma solo dopo qualche migliaio di pagine). Riflettere sulla «promessa» è quindi anche un riflettere su quale sia il dispositivo drammatico del proprio romanzo, il nocciolo di storia che tiene su tutto.

Cinque.
Sempre nel sito del concorso «Io scrittore» si trova un’altra pagina con non più solo due ma ben sette consigli per scrivere un buon titolo. Eccoli (li riporto scorciando un po’):

«1) Cercate il vostro titolo nel vostro libro e, soprattutto, fatelo cercare ad altri. Un lettore fidato leggendo il vostro romanzo potrebbe trovarvi dentro, nascosto in qualche frase, il titolo perfetto.
«2) Cercate il vostro titolo nei libri che leggete: “Che tu sia per me il coltello”, titolo di un bel romanzo epistolare di David Grossman, è tratto da una lettera di Franz Kafka a Milena Jesenská: “E forse non è vero amore se dico che tu mi sei la cosa più cara; amore è il fatto che tu sei per me il coltello col quale frugo dentro me stesso”.
«3) Cercate il vostro titolo tra i versi dei poeti: spesso ci sono versi che isolati possono diventare dei titoli perfetti.
«4) Non dipende certamente dalla bellezza del titolo se il vostro manoscritto verrà pubblicato o meno da una casa editrice.
«5) Non ci sono regole per il titolo giusto. Se fate un giro in libreria, potrebbe sembrarvi che ci siano delle regole perché la maggior parte dei libri che vedete esposti le rispettano. Ma si tratta di un’illusione, perché qualora ritornaste due anni dopo in quella stessa libreria vi trovereste altre regole. L’errore maggiore sarebbe scegliere il titolo con la speranza di accodarsi a una moda, per poi magari vedere il proprio libro uscire in libreria quando quella moda è già passata.
«6) Il titolo non deve ingannare il lettore. Racconta Umberto Eco nelle Postille a “Il nome della rosa”: “Il mio romanzo aveva un altro titolo di lavoro, che era ‘L’abbazia del delitto’. L’ho scartato perché fissa l’attenzione del lettore sulla sola trama poliziesca”.
«7) Tentate di non pensare al titolo fin quando non avete finito il romanzo e se avete già un titolo in testa non fate l’errore di affezionarvici troppo. Per ogni libro ci sono tanti, e diversi, titoli perfetti».

È sempre divertente trovare, in una lista di regole, quella che dice: «Non ci sono regole». Ricorda la famosa enciclopedia cinese citata (inventata) da Borges (nel racconto «L’idioma analitico di John Wilkins»), che suddivideva gli animali in «(a) appartenenti all’Imperatore, (b) imbalsamati, (c) ammaestrati, (d) lattonzoli, (e) sirene, (f) favolosi, (g) cani randagi, (h) inclusi in questa classificazione, (i) che s’agitano come pazzi, (j) innumerevoli, (k) disegnati con un pennello finissimo di pelo di ca****lo, (l) eccetera, (m) che hanno rotto il vaso, (n) che da lontano sembrano mosche». Ma in realtà il suggerimento al punto 5 è serissimo e validissimo: le mode sono effimere, tra la scrittura e la pubblicazione di un’opera narrativa possono passare anni, e fare qualunque cosa perché «è di moda» è sbagliato. Certo, ogniqualvolta un certo titolo ha molto successo si vedono fiorire le imitazioni (quante copertine con il titolo che sembra scritto con un gesso sul muro, dopo il successo di «Tre metri sopra il cielo»? Quante «Storie della buonanotte» dopo il successo di quelle «per bambine ribelli»?), ma la faccenda dura poco, pochissimo tempo (e, in genere, il successo di questi «cloni» è minimo).
Comunque: il metodo numero 1 è serio e serissimo: è capitato molte volte, a me, di proporre come titolo di un libro che stavo editando una frase o una locuzione trovata nel libro stesso. Idem per i metodi 2 e 3 (che sono lo stesso metodo): il mio primo libro, nel lontano 1993, s’intitolava «Questo è il giardino»: parole semplicissime, ma trovate in una poesia di Claudio Damiani. Il metodo 4 è vero: gli editori sono abituati ad aver che fare con titoli orrendi (e anche a controproporne di altrettanto orrendi, sia chiaro). Il metodo 6 è ovvio: si può ingannare solo per gioco (se date a un racconto di sette pagine il titolo «Storia universale di tutte le cose», non ingannate nessuno, al massimo vi fate prendere per un imitatore di Borges). Il metodo 7, boh: ho visto titoli nascere prima che fosse scritta una riga del romanzo, e arrivare fino alla pubblicazione; ho visto romanzi cambiare titolo dozzine di volte; io stesso ho scritto libri con ben chiaro in testa il titolo, che funzionava come principio-guida, mentre in altri casi il titolo l’ho trovato solo all’ultimo momento. Mantenersi indecisi, lasciarsi aperte le strade, non fissarsi, questo sì; ma «tentare di non pensarci», questo no.

Sei.
Nel suo sito Libroza Carmen Laterza, che si presenta come «scrittrice indipendente», offre una lista di brevi consigli (e, vi assicuro, è l’ultima che vi propongo). Un titolo deve essere (riporto i consigli e non le spiegazioni: sono chiarissimi):

«Breve.
Semplice.
Memorizzabile.
Coerente con il genere.
Coerente con il contenuto.
Originale (con moderazione) (“Non significa strano a tutti i costi”)»

e il metodo per trovarlo segue «11 semplici regole»:

«Analizza il tuo progetto.
Non fissarti sul primo che ti viene in mente.
Parti dal contenuto del libro.
Lasciati ispirare (“Potresti trovare il titolo perfetto in un libro che stai leggendo, in un film che stai guardando, in un’opera d’arte che stai osservando”).
Fai un elenco dei titoli migliori (“Rileggi più volte il tuo libro e fai una lista dei migliori titoli che ti vengono in mente. In questo gioco di brainstorming, prendi spunto dai titoli dei romanzi che trovi nelle librerie, lasciati andare e sii creativo”).
Leggi a voce alta.
Sii breve e conciso.
Chiedi consiglio.
Seleziona.
Controlla che non sia già stato usato.
Fai test e prove (con “amici o lettori di fiducia”)».

Che dire? Niente da dire. A parte l’ingenua incitazione «Sii creativo», tutto sanissimo e ordinato buonsenso. Sul fatto che il titolo debba essere breve mi permetto un dubbio, perché alcuni titoli che amo molto sono piuttosto lunghi. Ma è bene che un titolo lungo possa essere citato solo in parte. Per esempio il romanzo «La buona e brava gente della nazione» di Romolo Bugaro (molto bello) può essere citato (e, per esempio, richiesto in libreria) anche solo con le parole «La buona e brava gente»; e ho sentito con le mie orecchie e ho visto con i miei occhi un cliente chiedere il libro «La solitudine», e il libraio porgergli subito quella «dei numeri primi». Però è vero, una o due parole sono sufficienti per fare un titolo: bastino «Orgoglio e pregiudizio», «Delitto e castigo», «Guerra e pace» e «Cime tempestose» a provarlo.

Sette.
Vado a concludere questa rassegna citando un aspetto che le pagine web citate – e anche quelle che non ho citate – trascurano. Non vi darò un consiglio, ma vi proporrò solo una distinzione.
Un titolo può essere tematico o rematico (per approfondire: Gérard Genette, «Soglie», Einaudi 1989 pp. 81-88). È tematico quel titolo che dice di che cosa parla il libro; è rematico quel titolo che dice che forma ha il libro (o che forma hanno i testi che lo compongono).
Per spiegarsi: «I promessi sposi» è un titolo tematico, perché dice (ed è vero) che il romanzo parla di due promessi sposi. «Odi e inni» è un titolo rematico, perché effettivamente il libro (di Giovanni Pascoli) contiene componimenti che hanno la forma dell’ode o quella dell’inno (non contiene dunque sonetti, strambotti, madrigali eccetera).
Un titolo può essere contemporaneamente tematico e rematico. «Cronache familiari» di Vasco Pratolini è tematico (si parla di una famiglia) e rematico (contiene «cronache» di una famiglia, non «la storia» di una famiglia).
Un titolo può giocare tra tema e rema, contenuto e forma, per suggerire al lettore un certo modo di leggerlo. «Romanzo di figure» di Lalla Romano è molto intensamente rematico: è composto da una sequenza di fotografie, ciascuna accompagnata da un breve testo (non narrativo, piuttosto lirico): la parola «figure» è quindi tematicamente esplicita, perché appena sfogliamo il libro vediamo appunto le figure (ma, si potrebbe ragionare: queste figure sono il contenuto del libro o sono la forma che in esso assume la narrazione?), e la parola «romanzo» non descrive ciò che il libro (formalmente) è (perché senz’ombra di dubbio «Romanzo di figure» non è un romanzo), ma invita a leggerlo come se fosse un romanzo.

Otto.
Non mi è parso di trovare, infine, nelle varie liste di suggerimenti reperite qua e là, un tipo di titolo che mi sembra parecchi diffuso soprattutto nell’ambito del noir e del thriller: il titolo in cui è il protagonista o un personaggio a parlare. L’ottimo «Io sono la bestia», di Andrea Donaera; il best-seller «Io uccido» di Giorgio Faletti; parecchi romanzi dell’eccellente Paola Barbato: «Non ti faccio niente», «Io so chi sei», «Vengo a prenderti». Non sarà sfuggito il tono minaccioso di tutti questi titoli: e la minaccia, si sa, in narrativa, è una delle forme più efficaci di «promessa».

Nove.
Ora torniamo al titolo di questo articolo. Non vi sfuggirà che è un titolo insieme tematico («metodi sicuri per trovare un buon titolo per il tuo romanzo, nessuno dei quali funzionante») e rematico («dieci»); né vi sfuggirà che è un titolo mendace, ossia che fa una promessa che il testo non mantiene. Non vi ho proposto «metodi sicuri», non ho dimostrato che nessuno di questi è «non funzionante», e per finire non sono «dieci» né i metodi né i punti in cui l’articolo si, come dire?, articola. Ma tant’è: se siete arrivati a leggere fin qui, vuol dire che il titolo ha funzionato (e forse anche l’articolo). Grazie.

Qui sotto: una selezione di libri che s’intitolano «Senza titolo».

03/01/2024

Fiammetta Palpati è una persona che, letteralmente, mangia il mondo. Basta andare a fare due passi con lei in campagna, e lo si capisce: Fiammetta sa il nome di tutte le erbe, di tutti gli alberi, di tutti gli animali; e di tutti conosce l’eventuale uso alimentare.
Fiammetta Palpati è golosa: se potesse, mangerebbe tutto. No, non è un vizio. È un modo di comprendere il mondo. I bambini piccoli portano tutto alla bocca. Fiammetta vede ogni cosa sub specie alimenti, nel suo aspetto di cibo. Mangiare il mondo è conoscerlo.
Fiammetta Palpati è antica. La sua relazione con il mondo è infantile, ma dell’infanzia dell’umanità: nella sua infanzia l’umanità si disseminò per il mondo in cerca di cibo, cibo per vivere, cibo per moltiplicarsi. Le cose, nell’infanzia dell’umanità, si dividevano in due sole categorie: mangiabili, non mangiabili.
Mi è passata un’immagine davanti agli occhi: Fiammetta che divora un vocabolario. La golosità che la spinge a mangiare il mondo la spinge a mangiare anche le parole: perché le parole sono le cose, e mangiare una parola – cioè: usarla nella propria scrittura – è come, simbolicamente, mangiare la cosa che la parola designa.
C’è qualcosa, in tutto questo, di eucaristico: perché un pasto simbolico – un pasto di parole – ci mette in comunione con il mondo.
(E a farne le spese, ovviamente, è l’oca).

Il romanzo di Fiammetta Palpati «La casa delle orfane bianche» sarà nelle librerie il 26 gennaio. Ma chi si fosse incuriosito può già prenotarlo qui: http://tinyurl.com/mrkfwa46

03/01/2024

Poesia e storia

Che c’entra, la poesia con la Storia? L’idea più diffusa di poesia, al giorno d’oggi, mi pare, è che sia una produzione testuale (*) il cui principale, se non unico, scopo e obiettivo sia l’espressione dell’io. Un’altra idea molto diffusa è che un testo, quanto più è legato a quell’io che lo ha prodotto, e insieme quanto più sembra, a leggerlo, «universale» (**), tanto più è, a prescindere da ogni considerazione formale, poesia. E, in effetti, una delle cose che spesso si dicono delle opere letterarie dei secoli passati è che «parlano ancora al lettore di oggi» come se quei secoli non fossero, appunto, passati.

In sostanza, quindi, l’idea più diffusa di poesia è che sia una faccenda sostanzialmente astorica, ossia estranea alla Storia. Leopardi è eterno e immortale, e quindi non appartiene alla Storia ma all’Eternità. Dante è eterno e immortale, e quindi non appartiene alla Storia ma all’Eternità. Emily Dickinson è eterna e immortale, e quindi non appartiene alla Storia ma all’Eternità.

Ecco. Il guaio è che queste idee così diffuse sono, piaccia o non piaccia, un tantino fasulle. Non solo, e non tanto, perché la poesia si è spesso, per non dire sempre, occupata del mondo e della Storia: la «Divina commedia» è immersa nell’attualità politica del tempo di Dante; nei «Rerum vulgarium fragmenta» di Petrarca ci stanno la canzone «Italia mia, benché il parlar sia indarno» e altre cose in cui i riferimenti al tempo e alla storia non mancano; i poeti di corte, da Boiardo a Ariosto a Tasso, testimoniano anche di che cosa fosse la vita di corte all’epoca, e di come funzionasse il potere; Giuseppe Parini mise in poesia il problema dell’inquinamento (vedi l’ode «La salubrità dell’aria»); Leopardi non solo nella giovanile – e bruttina, diciamolo – canzone «All’Italia» si occupò del suo tempo, ma anche – e molto meglio – nella terribile «Ginestra»; Ungaretti scrisse le poesie di guerra; Montale «La bufera»; Pasolini fu Pasolini; eccetera.

Pensare che scrivere poesia sia un modo per estraniarsi dal mondo, cercando l’«universale» in una pallida vaghezza, è purtroppo – mi tocca dirlo – sbagliato.

Senza contare che la letteratura italiana, da un bel po’, è giustappunto un fatto politico – quindi un fatto storico. L’idea che abbiamo della letteratura italiana – l’idea che trasmette la scuola, e che quindi è stata proposta a ciascuno di noi – è in buona misura ancora quella che fu descritta e definita da Francesco De Sanctis nella sua «Storia della letteratura italiana»: la letteratura come madre della Nazione. L’Italia è stata per molto tempo, come diceva il Metternich, una «semplice espressione geografica»; ma contro la sprezzante battuta del cancelliere austriaco il De Sanctis, e molti altri con lui, potevano innalzare la bandiera della letteratura italiana: se esiste una letteratura italiana, esiste l’Italia, può esistere l’Italia, ha diritto all’esistenza l’Italia.

Ma la cosa interessante è che proprio quando l’unità nazionale (e nazionalistica) dell’Italia si è realizzata, proprio in quel momento letteratura si è come sentita svuotata da quello che da un bel pezzo sentiva come suo compito principale o quasi; e il sentimento nazionale della letteratura italiana, della letteratura come fondamento della Nazione, ha cominciato a vacillare. Alla fin fine: Ungaretti sarà pure stato un nazionalista che era andato volontario in guerra, e avrà anche scritto quel piccolo (e bellissimo) poema nazionale che è «I fiumi»: ma le sue poesie ci raccontano la miseria e l’insensatezza della guerra molto più che la sua gloria. E se D’Annunzio tromboneggiava a modo suo e dominava la scena, comunque c’erano scrittori che della guerra cercavano di restituire l’immagine reale: Pietro Jahier, per esempio, o Emilio Lussu.

Così forte è il legame tra la letteratura italiana, e in particolare la poesia, e la definizione dell’Italia come Nazione, che ancora nel 1978 Andrea Zanzotto, pubblicando «Il galateo in bosco», tornava lì, sui luoghi delle battaglie, sui cimiteri, sugli ossari, sul Montello.

Se io oggi apro la bocca e dico:

Oggi è una
bella giornata e
sono contento
di tutto questo sole,

o qualcosa del genere, non posso pensare – sbaglierei moltissimo a pensare – che queste poche parole indubbiamente – e ingenuissimamente, d’accordo – «liriche» siano sconnesse dalla Storia. Nella poesia italiana tutto è Storia: tutto, proprio tutto.

È per questo che il secondo corso (dell’annata 2023-2024) «Scrivere in versi», condotto per la Bottega di narrazione da Giovanna Frene, s’intitola «La poesia e la storia». Perché è impossibile, anche nel Novecento, forse soprattutto nel Novecento, e quindi anche ora che siamo nel Duemila, pensare al fare poesia come a qualcosa che ci separa, allontana, salva dal mondo.

No: il mondo è lì. E noi ci siamo dentro fino al collo.

Il programma del corso condotto da Giovanna Frene è qui: https://bottegadinarrazione.com/scrivere-in-versi-secondo-livello/

Qui sotto: la copertina della prima edizione (1947) di «Diario d’Algeria», di Vittorio Sereni. Sereni trascorse quasi tutto il tempo della Seconda guerra mondiale come prigioniero dell'esercito inglese, in Africa; e il «Diario d’Algeria» è una sorta di diario di prigionia.

---

(*) Si sente, no?, che ho fatto il liceo negli anni Settanta.
(**) Di solito, ovviamente, con riferimento a un universo popolato esclusivamente da maschi bianchi occidentali eccetera.

31/12/2023

Il Mozzi che festeggia l'anno nuovo.

31/12/2023

«Almanacchi, almanacchi nuovi! Signora, vuole un almanacco?».
«E cosa me ne faccio?».
«Questi almanacchi, signora, prevedono le cose che verranno».
«Sì, figurarsi».
«Ma questi almanacchi sono speciali!».
«E che cos’hanno di speciale? Non mi faccia perdere troppo tempo».
«Sono compilati con l’intelligenza artificiale».
«Oh cribbio! Anche qui l’hanno infilata».
«Non solo, hanno anche il QR code. Qui, nell’ultima pagina».
«E cosa me ne faccio di un QR code?».
«Ci scarica l’applicazione AlmanApp, che le fornirà previsioni personalizzate giorno per giorno, con semplici notifiche sul cellulare».
«In che senso, previsioni personalizzate?».
«Be’, AlmanApp accederà a tutte le informazioni disponibili nel suo telefono e nei cloud collegati, comprese le chat e la posta elettronica, e ascolterà tutte le sue conversazioni. In questo modo si arricchirà di informazioni su di lei e sulla sua cerchia, e potrà consigliarla di giorno in giorno nel modo più utile».
«Si prenderà tutta la mia vita, insomma».
«Ma la privacy è garantita. AlmanApp raccoglierà le informazioni e le elaborerà, ma le informazioni stesse non usciranno mai dal suo telefono. Il trattamento avverrà tutto all’interno. A nessuno sarà trasmesso niente».
«Certo, come no. Poi mi succede come ieri, che appena mi è scappato uno starnuto hanno cominciato ad apparirmi pubblicità di vitamina C e paracetamoli».
«AlmanApp non fa di queste cose, signora. E glielo posso dimostrare».
«Me lo dimostri».
«Lei ha diecimila euro?».
«Da buttare via sicuramente no».
«AlmanApp costa diecimila euro».
«Lei scherza?».
«No, sono serissimo. Il prezzo è elevato proprio perché la Hari Seldon Corporation, che produce AlmanApp, non raccoglie soldi vendendo spazi pubblicitari. Lei diffida di tutto ciò che viene offerto gratis, vero?».
«Eccèrto».
«E allora, perché diffida di qualcosa che viene offerto a pagamento, e una volta tanto un pagamento serio?».
«Ma mi faccia capire. Diecimila euro è il prezzo dell’applicazione?».
«È il prezzo per l’abbonamento 2024».
«E quindi, se anche ipoteticamente decidessi di acquistarla, tra un anno dovrei sborsare altri diecimila euro?».
«Anche di più».
«Bell’affare, mi propone».
«È dimostrato che grazie a AlmanApp il reddito delle persone aumenta considerevolmente».
«Considerevolmente quanto?».
«Oh… Mediamente del settecento per cento».
«Caspita. E chi l’ha dimostrato?».
«Un’équipe della Frank Herbert University di Arrakis».
«Arrakis. Un qualche sperduto paesino del Midwest, immagino».
«Immagina bene. Certe ricerche vanno condotte lontano dagli occhi indiscreti».
«Posso farle una domanda personale?».
«Prego».
«Lei sta cercando di vendermi, qui in strada, una app da diecimila euro l’anno. Ma lei, questa app, la usa?».
«Certamente!».
«E grazie a questa genialissima app, lei si ritrova, la sera di capodanno, con ’sto gelo che fa, a cercar di abbindolare gente per la strada. Una gran bella carriera!».
«La mia provvigione è del cinquanta per cento».
«La sua…».
«Per ogni abbonamento a AlmanApp che procuro, mi becco cinquemila euro. E, poiché lei sarà una cliente mia, di anno in anno, a ogni rinnovo – perché è certo, che di anno in anno lei rinnoverà l’abbonamento – di nuovo riceverò la metà di quello che lei pagherà. Saranno somme crescenti, perché il prezzo dell’abbonamento sarà stabilito sulla base dell’incremento annuo del suo reddito».
«Ah, bene, così sarò spolpato».
«Faccia due conti. Se il suo reddito aumenterà del settecento per cento, o anche solo del cinquecento per cento, pensa proprio che sarà un peso per lei pagare il dieci per cento per rinnovare AlmanApp?».
«Quindi lei, per avermi venduto ’sta st*****ta, negli anni a ve**re, secondo lei addirittura in eterno, incasserà la metà del dieci per cento di tutti i miei guadagni?».
«Gliel’ho appena detto».
«Ma quante AlmanApp ha piazzato, finora?».
«Guardi, sono nel giro veramente da poco. Ma con l’offerta natalizia ne ho piazzate ventuno».
«Che offerta natalizia?».
«Diecimila euro è l’offerta natalizia. C’è dall’8 dicembre. Il prezzo di listino è quindici».
«E quando scade?».
«Alla mezzanotte del 31. Di oggi».
«Quindi lei mi sta dando a intendere che tra l’8 dicembre e ogg ha guadagnato…».
«Centocinquemila euro. È più o meno il mio reddito mensile. Da cui va tolto il dieci percento, che va a chi ha venduto AlmanApp a me».
«E le tasse».
«Signora, la Hari Seldon Corporation opera attraverso filiali opportunamente collocate in quelli che i giornalisti chiamano paradisi fiscali. Le tasse si pagano lì».
«Ovvero?».
«La filiale alla quale sono consociato io è quella delle Isole Cayman. Si paga il due per cento di tutto».
«Il due per cento e basta?».
«E il resto è tutto mio».
«Sa una cosa?».
«Dica».
«Non credo una parola di tutto ciò che lei mi ha detto. Tuttavia, credo che con un po’ d’impegno potrei convincere qualcuno a comperare questa cavolo di app».
«Vede? È esattamente il ragionamento che ho fatto io, sette mesi fa. E adesso, più ho meno, ho in tasca settecentomila euro di più di quelli che avevo prima – che erano quasi niente, peraltro».
«Posso sollevare un’unica obiezione?».
«Sono pronto».
«Stiamo parlando da un quarto d’ora, è un quarto d’ora che io la osservo, e le dirò: lei non ha l’aria di uno che guadagna centomila euro al mese».
«In che senso?».
«Questo cappottino evidentemente a buon mercato, quelle scarpe di qualità andante, questo berretto di lana sintetica…».
«Lei è uno che giudica le persone da quello che spendono per vestirsi. Non le viene in mente che, avendo tanti soldi, è possibile fare qualcosa di più interessante?»,
«Per esempio?».
«Farfalle. Io colleziono farfalle. Farfalle rarissime. Non me frega niente di mangiare la pasta col tonno e di portare le stesse scarpe da una vita. Io voglio possedere la più grande collezione di farfalle rare che sia mai esistita al mondo. Capisce?».
«Vero o falso che sia ciò che mi dice, lei mi pare davvero un po’ matto».
«No, signora, io non sono matto. Sono un uomo che ha un sogno. Lei ce l’ha un sogno?».
«Io…».
«Ce l’ha un sogno?».
«No. Confesso. Non ho nessun sogno. Mi basta campare».
«Ed è felice?».
«Come si fa a essere felici, se si tira a campare?».
«Ma davvero non l’ha mai avuto, un sogno, mai mai mai?»
«Eh, da bambina».
«Che sogno aveva, da bambina?».
«Vivere in una casa in campagna, con l’orto e le galline».
«E perché non lo ha realizzato?».
«Perché, perché. Perché ho trovato un lavoro da impiegata, qui in città, e mi sono sposata, e ho fatto due figli, e la vita è diventata tutta un’interminabile routine».
«Dunque ha fatto la sua scelta».
«Sì, ho fatto la mia scelta. Compero l’app».
«Il pagamento si fa immediatamente. Ce l’ha l’home banking sul telefono?».
«Ce l’ho».
«E ce li ha, i diecimila euro?».
«Mettendo insieme il conto mio e di mio marito, sì».
«Ha l’operatività sul conto di suo marito?».
«Sì, lui con ’sti cosi è un casinista. Gira ancora con un Samsung del 2002».
«Perfetto. Allora procediamo?»
«Procediamo».
«Vedrà, signora, il suo 2024 sarà un anno indimenticabile».
«Speriamo».

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