The Velvet Snake - Francesca D’Alonzo
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Ciao sono Francesca! Viaggia con me in zone remote del mondo: https://youtube.com/c/francescadalonzo
Giorno 85-87 / 15.132 km / Khiva, Uzbekistan 🇺🇿
Giorno 85 / 15.132 km / sulla strada per Khiva, Uzbekistan 🇺🇿
La strada che collega Bukhara a Khiva in Uzbekistan attraversa il vasto deserto del Kyzylkum, un’area dominata da distese di sabbia e arbusti sparsi. Il percorso è lungo e spesso isolato, con poche tracce di insediamenti umani. L’asfalto varia di qualità, alternando tratti ben tenuti ad altri più accidentati, rendendo il viaggio un’avventura in sé.
Durante il tragitto, ci fermiamo per fare rifornimento in una stazione di servizio che mi ricorda quelle del Belucistan. Dopo aver riempito il serbatoio, il gestore si è immerso per quindici minuti nelle nostre foto dell’Afghanistan. Era incredulo che fossimo riuscite a viaggiare lì senza che ci fosse stata puntata un’arma contro, sorpreso che tutto fosse andato liscio. Sfogliava ogni immagine con una curiosità straordinaria, incapace di staccarsi.
Più avanti, avrò modo di raccontare in dettaglio l’esperienza in Afghanistan. Spero che chi mi leggerà o ascolterà possa avvicinarsi a queste storie con la stessa curiosità di quest’uomo, riconoscendo che spesso la realtà è più complessa di quanto si racconti.
🇬🇧 Day 85 / 15,132 km / on the road to Khiva, Uzbekistan 🇺🇿
The road from Bukhara to Khiva in Uzbekistan crosses the vast Kyzylkum Desert, an area dominated by expanses of sand and scattered shrubs. The route is long and often isolated, with little evidence of human settlement. The asphalt varies in quality, alternating between well-maintained and rougher stretches, making the journey an adventure in itself.
En route, we stop to refuel at a gas station that reminds me of those in Belucistan. After filling up the tank, the manager soaked in our photos of Afghanistan for fifteen minutes. He was incredulous that we had managed to travel there without a weapon being pointed at us, surprised that everything had gone smoothly. He flipped through each image with extraordinary curiosity, unable to tear himself away.
Later, I will have a chance to tell in detail about the experience in Afghanistan. I hope that those who will read or listen to me will be able to approach these stories with the same curiosity as this man, recognizing that reality is often more complex than the tales told.
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Giorni 82-84 / 14.698 km / Bukhara, Uzbekistan 🇺🇿
Da qualche giorno non mi sento bene, mi sembra di avere polenta nel cervello 😬 Prima o poi doveva succedere in un viaggio così lungo! Ma sono a Bukhara per la prima volta, e il richiamo delle sue madrase, dei vicoli e del calore del tramonto sulle decorazioni è irresistibile.
Days 82-84 / 14,698 km / Bukhara, Uzbekistan 🇺🇿
I haven’t been feeling well for a few days now, I feel like I have porridge on the brain 😬 It had to happen sooner or later on such a long trip! But I am in Bukhara for the first time, and the lure of its madrasas, alleyways and the warmth of the sunset over the decorations is irresistible.
Giorni 79-80 / 14334 km / Samarcanda, Uzbekistan 🇺🇿
Giorno 78 / 14334 km / Samarcanda, Uzbekistan 🇺🇿
Una vecchia foto in bianco e nero cattura il Registan, un tempo un crocevia polveroso, attraversato da instancabili carovane lungo le leggendarie vie della seta. Allora, il vento portava con sé la sabbia e i ricordi di una città che aveva visto passare mercanti, pellegrini e guerrieri, ognuno con una storia da raccontare. Oggi, quella polvere si è posata, e anche le cicatrici di un passato turbolento sono state curate. Tuttavia, ciò che resta immutato è la magia silenziosa e suggestiva delle sue piastrelle turchesi, che riflettono il cielo con un’intensità che sembra sfidare il tempo. Le decorazioni elaborate narrano storie antiche, intrecciando simboli di sapienza e fede. Le tre imponenti madrase, che dominano la piazza, sono più di semplici edifici: sono templi del sapere, custodi della grandezza della conoscenza umana. Qui, tra i loro portali maestosi e cortili ombreggiati, si è tramandata l’arte del porsi domande e del cercare risposte, un patrimonio inestimabile che continua a ispirare coloro che vi pongono piede.
Day 78 / 14334 km / Samarkand, Uzbekistan 🇺🇿
An old black-and-white photo captures Registan, once a dusty crossroads traversed by tireless caravans along the legendary silk routes. Back then, the wind carried with it the sand and memories of a city that had seen merchants, pilgrims and warriors pass through, each with a story to tell. Today, that dust has settled, and even the scars of a turbulent past have been healed. However, what remains unchanged is the quiet, evocative magic of its turquoise tiles, which reflect the sky with an intensity that seems to defy time. The elaborate decorations tell ancient stories, interweaving symbols of wisdom and faith. The three imposing madrasas, which dominate the square, are more than just buildings: they are temples of knowledge, guardians of the greatness of human knowledge. Here, among their majestic portals and shady courtyards, the art of asking questions and seeking answers has been handed down, a priceless heritage that continues to inspire those who set foot in them.
Giorni 73-77 / 14.015 km / Tashkent, Uzbekistan 🇺🇿
Avevamo pianificato di restare a Tashkent per cinque giorni, con l’hotel già prenotato, sicuri che sarebbe bastato per ottenere il visto di transito russo e riavere i nostri passaporti. Per quante ricerche si facciano, la burocrazia regala sorprese: l’impiegato ci informa, con estrema intransigenza, che ci vogliono 10 giorni lavorativi e che i passaporti devono restare in loro possesso per tutto il periodo! Dopo aver fatto appello alla sua comprensione, troviamo un compromesso: uno di noi tornerà (volando) dopo 10 giorni con tutti i passaporti, e in un’ora ci apporranno i visti. Così il viaggio può continuare. Nel frattempo, questi cinque giorni di riposo si sono rivelati preziosi, un vero toccasana in un viaggio così intenso. Domani, riposati e pronti, ci dirigiamo verso Samarcanda!
E tu hai qualche aneddoto legato alla burocrazia di confine? Fammelo sapere qui sotto nei commenti ☺️⤵️
Days 73-77 / 14,015 km / Tashkent, Uzbekistan
We had planned to stay in Tashkent for five days, with the hotel already booked, confident that it would be enough to get the Russian transit visa and get our passports back. No matter how much research we do, bureaucracy delivers surprises: the clerk informs us, with extreme intransigence, that it takes 10 working days and that the passports must remain in their possession for the entire period! After appealing to his understanding, we find a compromise: one of us will return (flying) after 10 days with all the passports, and in an hour they will affix our visas. In the meantime, these five days of rest have proved invaluable, a real boon on such an intense trip. Tomorrow, rested and ready, we head for Samarkand!
And do you have any anecdotes related to border bureaucracy? Let me know below in the comments ☺️⤵️
Giorno 72 / 13853 km / Tajikistan 🇹🇯
È da un bel po’ che non incontravo altri motoviaggiatori! 😍 Dushanbe segna il punto d’inizio o di fine della leggendaria Pamir Highway, che anche quest’anno resterà un sogno ancora da realizzare. C’è un punto lungo quella strada da cui si scorge l’Afghanistan oltre il fiume; sono quattro anni che desidero percorrerla, ma quest’anno, contro ogni aspettativa, ho potuto viaggiare direttamente al di là del confine. Questo è già un regalo immenso. Nel frattempo, ci pensano le gallerie a rifarmi il trucco.
Day 72 / 13853 km / Tajikistan 🇹🇯
It’s been a while since I’ve met other motorcycle travelers! 😍 Dushanbe marks the beginning or end point of the legendary Pamir Highway, which again this year will remain a dream yet to be realized. There is a point along that road from which one can glimpse Afghanistan across the river; I have been longing to travel it for four years, but this year, against all expectations, I was able to travel directly across the border. This is already an immense gift. In the meantime, the tunnels take care of my makeup.
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Giorno 71 / 13.548 km / Dushanbe, Tagikistan 🇹🇯
Dopo 40 giorni di Iran prima e Afghanistan poi, i capelli sono di nuovo liberi. È bellissimo eppure quando mi tolgo il casco ho la sensazione che mi manchi qualcosa, passerà.. la musica è tornata a rallegrare le strade.
Day 71 / 13,548 km / Dushanbe, Tajikistan 🇹🇯
After 40 days in first Iran and then Afghanistan, the hair is free again. It is beautiful and yet when I take off my helmet I have the feeling that something is missing, it will pass...music is back to brighten the streets.
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Giorno 71 / 13.548 km / Khoda hafiz, Afghanistan
Andrea è stato molto bravo e ne è uscito un racconto davvero onesto, lo trovate qui:
https://youtu.be/Pymwao-qZMU?si=cfU_FjmNILiT8rox
Francesca D'Alonzo @ Dixit - Senza fretta ma senza sosta Motociclista, YouTuber, volto ufficiale Yamaha, 4 viaggi intercontinentali, 2 gare, 2 rally, milioni di persone raggiunte.Dobbiamo aggiungere qualcosa? 😄Fra...
Giorno 70 / 13.300 km / Kabul - Salang Pass - Konduz, Afghanistan
Tutti parlano del tunnel del Salang, ma nessuno ti racconta della strada orrenda che devi affrontare per arrivarci. Questa strada è una delle arterie vitali dell’Afghanistan, un collegamento cruciale tra il nord e il sud del paese, che attraversa la catena montuosa dell’Hindu Kush. Oggi, il passaggio è facilitato dal Salang Tunnel, che scorre sotto il passo a un’altitudine di circa 3.400 metri, un’impresa ingegneristica sovietica iniziata nel 1964 che allevia il viaggio ma non la difficoltà della strada per raggiungerlo. Tante le guerre e un terreno instabile che frana spesso.
Abbiamo lasciato Kabul con i suoi tanti posti di blocco e ci siamo subito trovati di fronte a una strada che sembrava volerci respingere ad ogni metro. A tratti riuscivo a seguire una sottile strisciolina di asfalto residuo, un filo di speranza in mezzo a un mare di rocce e polvere. Ma quei momenti di asfalto finivano rapidamente, lasciando spazio a un terreno duro e accidentato, una combinazione letale di sabbia e sassi che metteva a dura prova le sospensioni della moto e le mie braccia. La Willys non aveva vita più facile.
Il traffico era incredibile: un flusso continuo di camion, autocisterne, macchine e piccoli furgoni, tutti carichi fino all’inverosimile di merci, arrampicandosi lentamente verso la vetta o discendendo da essa. Questa interminabile carovana di veicoli sollevava nuvole di polvere, rendendo lo slalom tra i mezzi un’impresa che richiedeva una concentrazione totale e un pizzico di follia, sperando di non trovarsi faccia a faccia con un altro veicolo proveniente dal senso opposto. […]
Tutta la storia sulla mia pagina FB/ full story on my FB page
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Giorno 70 / 13.300 km / Kabul - Salang Pass - Konduz, Afghanistan 🇬🇧⤵️
Tutti parlano del tunnel del Salang, ma nessuno ti racconta della strada orrenda che devi affrontare per arrivarci. Questa strada è una delle arterie vitali dell'Afghanistan, un collegamento cruciale tra il nord e il sud del paese, che attraversa la catena montuosa dell'Hindu Kush. Oggi, il passaggio è facilitato dal Salang Tunnel, che scorre sotto il passo a un'altitudine di circa 3.400 metri, un’impresa ingegneristica sovietica iniziata nel 1964 che allevia il viaggio ma non la difficoltà della strada per raggiungerlo. Tante le guerre e un terreno instabile che frana spesso.
Abbiamo lasciato Kabul con i suoi tanti posti di blocco e ci siamo subito trovati di fronte a una strada che sembrava volerci respingere ad ogni metro. A tratti riuscivo a seguire una sottile strisciolina di asfalto residuo, un filo di speranza in mezzo a un mare di rocce e polvere. Ma quei momenti di asfalto finivano rapidamente, lasciando spazio a un terreno duro e accidentato, una combinazione letale di sabbia e sassi che metteva a dura prova le sospensioni della moto e le mie braccia. La Willys non aveva vita più facile.
Il traffico era incredibile: un flusso continuo di camion, autocisterne, macchine e piccoli furgoni, tutti carichi fino all'inverosimile di merci, arrampicandosi lentamente verso la vetta o discendendo da essa. Questa interminabile carovana di veicoli sollevava nuvole di polvere, rendendo lo slalom tra i mezzi un'impresa che richiedeva una concentrazione totale e un pizzico di follia, sperando di non trovarsi faccia a faccia con un altro veicolo proveniente dal senso opposto.
Nonostante la sua importanza strategica, la condizione della strada è terribile, senza una copertura asfaltata decente per lunghi tratti, solo rocce, sabbia e, in caso di pioggia, fango. Ogni buca era un test di resistenza, ogni curva una scommessa. E mentre ci avvicinavamo al tunnel, circondati da picchi che tagliavano il cielo, la sensazione di aver conquistato qualcosa di straordinario si faceva sempre più forte.
Il Salang Pass è uno di quei luoghi che si imprimono nella memoria per sempre, non solo per la sua bellezza selvaggia e pittoresca, ma anche per la sfida che rappresenta. Nel bene e nel male, proprio come l’Afghanistan.
Da qualche anno sono iniziati i lavori per asfaltare il tunnel del Salang, percorriamo un tratto di questa galleria lunga quasi 3 chilometri, buia, umida e spesso congestionata dal traffico. L’aria è rarefatta, e l’odore di gas di scarico ti colpisce in pieno, rendendo difficile respirare.
Finito il breve tratto asfaltato, l’intero traffico viene deviato su una serpentina su e giù per dei tornanti stretti il cui fondo è sbriciolato dal continuo passaggio di mezzi più o meno pesanti.
Mi vengono in mente alcune strade accidentate e intensamente trafficate percorse in Ladakh ma no, questa è definitivamente peggio.
Il conforto arriva solo una volta superato il passo, non sono mai stata più felice di trovare l’asfalto! Anche se con questo sono arrivati i consueti posti di blocco con gli uomini armati. A qualcuno farà sorridere ma sono stati molto gentili e persino desiderosi di scattare delle foto insieme, sì anche con me e Julia. Un uomo armato ci ha tenuto persino a farne una mentre mi stringeva la mano, difficile sottrarsi. La direzione del governo attuale è quella di trasformare il Paese in una destinazione turistica, di conseguenza i viaggiatori vengono trattati con un occhio di riguardo, per quanto carichi di oneri burocratici, e sì anche se sono donne. Due pesi due misure.
Lungo una strada circondata dal verde che mi richiama alla memoria quella che da Multan portava a Islamabad, raggiungiamo Konduz in serata per la nostra ultima notte in terra afghana. Qui incontro una donna bellissima vestita con il niqab, originaria del posto ma trapiantata da diversi anni oltreoceano. Qui per sbrigare degli affari personali aiutata dai figli maschi, con una fatica che si legge negli occhi e nella voce e desiderosa di rientrare il prima possibile nella sua nuova Patria dove lavora come avvocato e aiuta la sua gente ad emigrare. Cena a base di pulau, riso speziato condito con carne e uvetta che la famiglia della nostra nuova amica insiste generosamente per offrirci.
🇬🇧 Day 70 / 13,300 km / Kabul - Salang Pass - Konduz, Afghanistan
Everyone talks about the Salang tunnel, but no one tells you about the horrendous road you have to face to get there. This road is one of Afghanistan's vital arteries, a crucial link between the north and south of the country, crossing the Hindu Kush mountain range. Today, passage is facilitated by the Salang Tunnel, which runs under the pass at an elevation of about 3,400 meters, a Soviet engineering feat begun in 1964 that alleviates the journey but not the difficulty of the road to get there. So many wars and unstable terrain that landslides often.
We left Kabul with its many checkpoints and were immediately confronted with a road that seemed to want to push us back at every meter. At times I could follow a thin strip of residual asphalt, a thread of hope amidst a sea of rocks and dust. But those moments of asphalt quickly ended, giving way to hard, rough terrain, a lethal combination of sand and stones that strained the bike's suspension and my arms. The Willys had no easier life.
The traffic was unbelievable: a continuous stream of trucks, tankers, cars and small vans, all loaded to the hilt with goods, slowly climbing to the summit or descending from it.
This interminable caravan of vehicles raised clouds of dust, making slaloming between vehicles a feat that required total concentration and a dash of madness, hoping not to come face to face with another vehicle coming from the opposite direction.
Despite its strategic importance, the condition of the road is terrible, with no decent asphalt covering for long stretches, only rocks, sand and, in case of rain, mud. Every pothole was an endurance test, every bend a gamble. And as we approached the tunnel, surrounded by peaks that cut through the sky, the feeling of having conquered something extraordinary grew stronger and stronger.
The Salang Pass is one of those places that sticks in the memory forever, not only for its wild and picturesque beauty, but also for the challenge it represents. For better or worse, just like Afghanistan.
Work began a few years ago to pave the Salang tunnel; we walk through a section of this nearly 3-kilometer-long tunnel, dark, damp and often congested with traffic. The air is thin, and the smell of exhaust fumes hits you hard, making it difficult to breathe.
Once the short paved section is over, the entire traffic is diverted on a serpentine up and down narrow hairpin bends whose bottom is crumbled by the continuous passage of more or less heavy vehicles.
I can think of some rough and intensely busy roads traveled in Ladakh but no, this one is definitely worse.
Comfort only comes once I cross the pass; I have never been happier to find tarmac! Although with that came the usual checkpoints with armed men. It will make some people smile but they were very nice and even eager to take pictures together, yes even with Julia and me. One gunman even held out for one while shaking my hand, hard to escape. The current government's direction is to turn the country into a tourist destination, as a result travelers are treated with an eye to the prize, no matter how loaded with bureaucratic burdens, and yes even if they are women. Double standards.
Along a road surrounded by greenery that reminds me of the road from Multan to Islamabad, we reach Konduz in the evening for our last night on Afghan soil. Here I meet a beautiful woman dressed in a niqab, a local native but transplanted several years overseas. Here to take care of personal business aided by her male children, with a fatigue in her eyes and voice and eager to return as soon as possible to her new homeland where she works as a lawyer and helps her people migrate. Dinner of pulau, spiced rice topped with meat and raisins that our new friend's family generously insists on offering us.
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Giorno 68-69 / 12.952 Km / Kabul, Afghanistan
Questo treno, che un tempo trasportava vite e storie, ora è un simbolo del passato del Paese, fermo ma non dimenticato. Khoda hafiz, Kabul - “Che Dio ti protegga”, si dice in Dari ad ogni congedo.
Day 68-69 / 12,952 km / Kabul, Afghanistan
This train, which once carried lives and stories, is now a symbol of the country's past, still but not forgotten. Khoda hafiz, Kabul - "May God protect you," is said in Dari at each farewell.
Giorno 67 / 12785 km / Bamyan, Afghanistan 🇬🇧⤵️
Oggi ho avvertito la fatica nelle mani più intensamente del solito. Scaricare la Willys per portarla a lavare sembrava un gesto banale, ma verso sera il formicolio mi ricorda che, a volte, il corpo porta il peso delle esperienze in modi inaspettati.
Abbiamo esplorato le rovine di Gholghola, la città fantasma che un tempo dominava la valle di Bamyan. La salita, sotto il sole implacabile, è stata lenta e ogni passo sembrava diventare più pesante, come se la terra stessa si rifiutasse di sostenere il nostro cammino. Un uomo armato ci seguiva ad ogni movimento, scrutando il paesaggio con sguardo vigile, quasi a ricordarci che in Afghanistan, anche la più semplice passeggiata è un privilegio sorvegliato, e il senso di libertà è un lusso fragile.
Gholghola, conosciuta anche come "la città delle urla", era un tempo un baluardo di difesa, oggi ridotta a un cumulo di rovine dalla furia mongola che si abbatté su Bamyan nella primavera del 1221. Gengis Khan, accecato dal dolore per la morte di suo nipote Mutukhan, colpito da una freccia scoccata proprio da queste mura, decise di annientare ogni cosa in questa valle. Qui, la storia non è solo raccontata, è scritta nella polvere che si solleva tra i ruderi e nei sussurri del vento che soffia tra le pietre.
Più tardi, mentre aspettavo che la jeep venisse lavata, un convoglio di uomini armati si è fermato e mi ha intimato, attraverso Amedeo, di coprire le trecce. Non era un suggerimento, ma un ordine, uno dei tanti che rendono il mondo delle donne qui sempre più piccolo, sempre più nascosto.
I Buddha di Bamyan, un tempo colossali figure di serenità, sono ora solo ombre, vuoti scolpiti nella montagna.
Stasera, abbiamo cenato nel cortile dell'hotel, in silenzio. Nessuno di noi aveva voglia di rivivere l’incontro con l’uomo armato che la prima sera aveva fatto irruzione nella sala del ristorante dove stavamo mangiando e ci aveva ricordato che alle 22 dovevamo rientrare nel nostro compound.
I nostri amici polacchi, con cui avevamo condiviso i giorni precedenti, ci hanno salutato stamattina, diretti verso il Tagikistan, desiderosi di lasciare il Paese il prima possibile. E come dargli torto?
Eppure, nonostante tutto, c'è qualcosa in questo luogo che trattiene, che affonda radici nel cuore e nell'anima. Forse è la bellezza di una terra aspra e antica, o è il coraggio silenzioso delle persone che incontro, che continuano a vivere nonostante le ombre che incombono su di loro.
Nonostante tutto, la vita continua.
Domani andiamo a Kabul.
🇬🇧 Day 67 / 12785 km / Bamyan, Afghanistan
Today I felt the fatigue in my hands more intensely than usual. Unloading the Willys to take it to the wash seemed a mundane gesture, but toward evening the tingling reminded me that sometimes the body carries the weight of experiences in unexpected ways.
We explored the ruins of Gholghola, the ghost town that once dominated the Bamyan Valley. The climb, under the relentless sun, was slow and each step seemed to get heavier, as if the earth itself refused to support our path. A gunman followed us every step of the way, scanning the landscape with a watchful gaze, as if to remind us that in Afghanistan, even the simplest walk is a guarded privilege, and a sense of freedom is a fragile luxury.
Gholghola, also known as "the city of screams," was once a bastion of defense, now reduced to a heap of ruins by the Mongol fury that swept over Bamyan in the spring of 1221. Genghis Khan, blinded by grief over the death of his nephew Mutukhan, who was shot by an arrow from these very walls, decided to annihilate everything in this valley. Here, the story is not only told, it is written in the dust rising among the ruins and in the whispers of the wind blowing through the stones.
Later, as I waited for the jeep to be washed, a convoy of armed men stopped and intimated to me, through Amedeo, to cover the braids.
It was not a suggestion, but an order, one of many that make the women's world here smaller and smaller, more and more hidden.
The Buddhas of Bamyan, once colossal figures of serenity, are now only shadows, voids carved into the mountain.
Tonight, we had dinner in the hotel courtyard, in silence. None of us felt like reliving our encounter with the gunman who had broken into the room where we were eating the first night and reminded us that we had to return to our compound at 10 p.m.
Our Polish friends, with whom we had shared the previous days, bid us farewell this morning, heading for Tajikistan, eager to leave the country as soon as possible. And how can we blame them?
Yet despite everything, there is something about this place that holds, that takes root in the heart and soul. Perhaps it is the beauty of a rugged and ancient land, or it is the silent courage of the people I meet, who continue to live despite the shadows that loom over them. Despite everything, life goes on. Tomorrow we go to Kabul.
Giorno 66 / 12785 km / Bamyan, Afghanistan (🇬🇧⤵️)
Una probabile intossicazione alimentare ha costretto i miei compagni di viaggio a restare prigionieri nelle loro stanze, ma io no. Il richiamo di Bamyan è troppo forte. Decido di uscire, sola.
"Esci da sola?" mi chiede il ragazzo all'ingresso della guesthouse. Il suo sguardo è una miscela di smarrimento e un accenno di disapprovazione. Varco il cancello, lasciandomi alle spalle un microcosmo chiuso al mondo esterno fatto di mura alte, sormontate da filo spinato.
Cammino lungo il fiume dove bambini giocano divertiti e donne lavano le stoviglie, attraversando un ponte che sembra scricchiolare sotto il peso di pensieri inespressi. Sulla via principale, i negozi sembrano in dormiveglia: la luce è un’idea lontana, un bagliore debole che non riesce a vincere il buio. Ma più mi addentro nelle strade secondarie, più il mondo si accende. Sono diretta al craft bazaar, dove le donne creano e vendono con mani abili e cuori tenaci. Qui, tra legno bianco e vetri, i negozi si riempiono di abiti dai colori vivaci, pantofole calde, gioielli scintillanti.
Incontro Zahra, un nome di fantasia, ha ventitré anni, parla inglese e diventa subito la mia guida, non solo attraverso il bazaar, ma anche nella storia di questa città. Mi racconta di un tempo in cui studiare medicina e muoversi in bici erano realtà, non sogni spezzati. Anche una realtà come il craft bazaar con gestione al femminile è una delle ultime oasi possibili nel Paese. Ma Bayam è un’area particolare, abitata per lo più dall’etnia Hazara. Qualcosa sopravvive anche a Kabul.
Mi parla con dolcezza ma lanciando costantemente occhiate nervose attorno. Quando ci salutiamo, lei mi abbraccia, forte, come se volesse trattenere qualcosa che sta inevitabilmente scivolando via. “Dov'è il tuo driver?” mi chiede, preoccupata. “Sono venuta da sola,” rispondo. I suoi occhi si riempiono di apprensione: "Tieniti da conto," mi dice, fissandomi intensamente. Mi mostra un video di lei che balla a un matrimonio, vestita di bianco, i capelli sciolti, un sorriso che ha i colori di mille farfalle che volano nell’aria.
Mentre parlava, i suoi occhi cercavano qualcosa o qualcuno, con la tensione di chi percepisce un pericolo incombente, ma non riesce a definirlo.
Solo pochi mesi fa, a Bamyan, tre turisti spagnoli e tre afghani - uno era il driver - sono stati uccisi mentre facevano compere al mercato locale. Il governo attuale cerca di rilanciare il turismo, ma c'è chi vede ogni straniero come una minaccia, un bersaglio da colpire.
Lascio il bazaar ormai al tramonto, portando con me il calore e i colori delle donne, ma il mio passo si fa più rapido. L'inquietudine che mi avvolge è la stessa che ho sentito quando ho varcato il confine di questo paese alla guida della mia moto. Un viaggio in Afghanistan non è mai da prendere alla leggera. La consapevolezza pesa, e la paura diventa una compagna silenziosa. Ma la bellezza di questo luogo è disarmante, si attacca al cuore come la sabbia che ti entra sotto la pelle e non puoi - e forse non vuoi - mai più scrollarti di dosso.
🇬🇧Day 66 / 12785 km / Bamyan, Afghanistan
Probable food poisoning has forced my fellow travelers to remain prisoners in their rooms, but not me. The call of Bamyan is too strong. I decide to go out, alone.
"Are you going out alone?" the boy at the entrance of the guesthouse asks me. His look is a mixture of bewilderment and a hint of disapproval. I walk through the gate, leaving behind a microcosm closed to the outside world made of high walls topped with barbed wire.
I walk along the river where children play amusedly and women wash dishes, crossing a bridge that seems to creak under the weight of unexpressed thoughts. On the main street, the stores seem dormant: light is a distant idea, a faint glow that cannot overcome the darkness. But the further I go into the side streets, the more the world lights up. I am headed to the craft bazaar, where women create and sell with skilled hands and tenacious hearts. Here, amid white wood and glass, the stores are filled with brightly colored clothes, warm slippers, sparkling jewelry.
I meet Zahra, a fictitious name, is twenty-three years old, speaks English, and immediately becomes my guide, not only through the bazaar, but also into the history of this city. She tells me about a time when studying medicine and moving around on a bicycle were realities, not broken dreams. Even a reality like the craft bazaar with female management is one of the last possible oases in the country. But Bayam is a peculiar area, inhabited mostly by the Hazara ethnic group. Something survives even in Kabul.
She speaks to me softly but constantly casting nervous glances around. When we say goodbye, she hugs me, tightly, as if trying to hold back something that is inevitably slipping away. "Where is your driver?" she asks me, worried. "I came alone," I reply. Her eyes fill with apprehension, "Hold on to yourself," she says, staring at me intently. She shows me a video of her dancing at a wedding, dressed in white, her hair down, a smile that has the colors of a thousand butterflies flying through the air.
As she spoke, her eyes searched for something or someone, with the tension of someone who senses a looming danger but cannot define it.
Just a few months ago, in Bamyan, three Spanish tourists and three Afghans-one was the driver-were killed while shopping at the local market. The current government is trying to boost tourism, but there are those who see every foreigner as a threat, a target to be shot at.
I leave the bazaar at the sunset, taking with me the warmth and colors of the women, but my pace quickens. The restlessness that envelops me is the same as I felt when I crossed the border into this country riding my motorcycle. A trip to Afghanistan is never to be taken lightly. Awareness weighs heavy, and fear becomes a silent companion. But the beauty of this place is disarming, it sticks to your heart like sand that gets under your skin and you can't-and maybe don't want to-ever shake it off.
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