Criminologia Italiana

Criminologia Italiana

Pagina dedicata alla Criminologia e alla Criminalistica. Approfondimenti sulla Psicologia Criminale e sulle Scienze Forensi.

30/04/2022

Giampiero Tribolati torna a casa da lavoro e trova la sua giovane sposina distesa in un lago di sangue.
La vittima si chiama Valentina Masneri, ha 26 anni, è alta, bella, bruna e lavora come stilista di moda.
La sera del giorno fatale sarebbe dovuta partire per la Germania, per un viaggio di lavoro.
La coppia era definita dai vicini come una “coppia felice”, vivevano insieme in un appartamento di via Settala al terzo piano di un moderno caseggiato, non si potevano definire molto benestanti ma sicuramente avevano tutto il necessario per condurre una vita dignitosa.
La telefonata del marito al 113 è giunta alle 18.30, ma secondo le indagini la vittima sembrava essere morta un'ora prima; l'assassino l'ha massacrata con più di venti coltellate, come in preda ad un raptus.
L'ipotesi di rapina viene subito esclusa: nell’ appartamento ci sono i segni di una furibonda colluttazione e non è stato portato via nessun oggetto o bene di valore.
Non sembra essere un omicidio premeditato.
Sul tavolo da pranzo vengono trovati due bicchierini bagnati di liquore, a testimoniare che Valentina abbia fatto entrare il suo carnefice e gli abbia offerto da bere, perchè sicuramente si conoscevano.
Le indagini proseguono seguendo la pista passionale e la pista dei conoscenti della coppia, attraverso numerosi interrogatori al marito, in più occasioni incoerente e poco preciso, per via del comprensibile shock.
Unica svolta, un bottone di cappotto maschile, evidentemente strappato durante la colluttazione; ma nemmeno questo porta a una soluzione del caso.
Vero è che la zona tra Porta Venezia e la Stazione Centrale, ai tempi, non è delle meglio frequentate: pr******te ad ogni angolo delle strade, specie su via Settala, con relativo contorno di protettori.
La casa ha quattro piani, il portone è sempre chiuso, ma gli inquilini affermano che a volte è un porto di mare e si vedono facce mai viste, forse molte appartenenti al giro di giovani di una comune all'ultimo piano del palazzo.
Inoltre, dieci giorni prima del terribile fatto, un ragazzo aveva minacciato di morte una modella, destando angoscia nella popolazione femminile del vicinato.
La paura di un maniaco che uccide ragazze innocenti e di buona famiglia iniziava a diffondersi velocemente.
Il caso è ormai dimenticato e nessun colpevole è mai stato arrestato.
Viene poi collegato ad altre morti avvenute a Milano e collegate al mai scoperto Mostro di Milano.

Photos from Criminologia Italiana's post 24/04/2022

La storia dell'umanità non è solo una storia di scoperte e conquiste. Questa è una storia di tortura. Uno dei più terribili strumenti di tortura inventati dagli antichi era il toro di rame, nel grembo del quale morì il suo creatore.
Inventata nell'antica Grecia. Fu ampiamente utilizzata dal tiranno Falarid.

Falarid, tiranno di Akragas (l'odierna Agrigento in Sicilia), era un sadico senza cuore noto per la sua ineguagliabile crudeltà in tutte le situazioni. C'erano leggende che raccontavano che il tiranno mangiava la carne dei bambini. È noto che ordinava di gettare i nemici catturati nel cratere dell'Etna.
Torniamo alla storia toro: Una volta il ramaio ateniese Perillus parlò a Falarid della sua nuova invenzione - un dispositivo per la tortura e l'esecuzione, che avrebbe dovuto incutere paura nei nemici.
Il toro era un dispositivo di un design molto semplice, ma decisamente diabolico. Il dispositivo era realizzato interamente in rame con la forma e le dimensioni di un vero toro, e al suo interno c'era una camera cava. La persona che stava per essere giustiziata veniva messa all'interno e rinchiusa. Quindi veniva acceso un fuoco sotto il ventre, che riscaldava il fondo del toro fino a quando la vittima all'interno veniva arrostita a morte.
Come se il toro di rame non fosse un'invenzione abbastanza crudele di per sé, fu progettato in modo che le urla della vittima potessero essere udite attraverso una serie di tubi speciali. Questo terribile apparecchio acustico trasformava le urla disperate in modo che suonassero come il ruggito rabbioso di un toro.
Secondo la leggenda, Perillus disse a Falarid: "Le urla della vittima ti raggiungeranno attraverso le trombe come il più dolce ronzio melodico". Falarid incuriosito da queste parole, ordinò di testare il sistema di altoparlanti sul creatore stesso: Perillus.
Ironia della sorte, lo stesso tiranno Falaris fu arrostito nel toro di rame quando fu rovesciato da Telemaco

15/04/2022

IL RAPIMENTO DEL PICCOLO EDGARDO MORTARA (1858)

Il caso Edgardo Mortara fu una celebre vicenda storica che catturò l'attenzione internazionale in gran parte dell'Europa e del Nord America tra gli anni cinquanta e sessanta del XIX secolo. Concerne il prelievo avvenuto nell'allora Stato Pontificio, durante il Risorgimento italiano, da parte delle autorità clericali, di un bambino di 6 anni dalla propria famiglia ebraica, avvenuto il 23 giugno 1858, a cui fece seguito il suo trasferimento a Roma sotto la custodia di papa Pio IX, per esser allevato come cattolico. Nonostante le disperate e reiterate richieste dei genitori di riavere il bambino, il Papa rifiutò sempre di riconsegnarlo. Ciò contribuì a creare nell'opinione pubblica sia in Italia sia all'estero l'immagine di uno Stato Pontificio anacronistico e irrispettoso dei diritti umani nell'età del liberalismo e del razionalismo, contro cui sarebbe stato opportuno che i Savoia intervenissero militarmente.
Il bambino, nato in una famiglia ebraica di Bologna il 27 agosto 1851, fu battezzato all'insaputa dei genitori, nel suo primo anno di vita, dalla domestica Anna Morisi che lo riteneva a rischio di morte imminente a causa di una malattia; quando alla fine del 1857 l'inquisitore di Bologna, padre Pier Feletti, udì la storia, la Santa Inquisizione decretò che questa azione aveva fatto di Edgardo irrevocabilmente un cattolico, e siccome la legge degli Stati Pontifici prevedeva il divieto a persone di altre fedi di crescere i cristiani, i genitori del bambino persero la patria potestà. La polizia entrò in casa della famiglia Mortara e portò via Edgardo, che venne cresciuto in un collegio cattolico al di fuori della famiglia d'origine, diventando poi sacerdote.
Quando il caso del bambino rapito trapelò, la notizia si diffuse ben presto anche all'estero, suscitando oltraggio per il senso di umanità e uno scandalo internazionale.
Il caso Mortara, per un periodo sottovalutato e dimenticato dalla storiografia italiana, ha ricevuto nuova eco dopo il libro Prigioniero del Papa Re, dello storico David Kertzer, ma soprattutto dopo la decisione di papa Giovanni Paolo II di beatificare Pio IX nel 2000, influenzando negativamente le relazioni con le organizzazioni ebraiche.
La sera del 23 giugno 1858 la polizia dello Stato Pontificio, che a quei tempi comprendeva ancora Bologna, si presentò alla porta della famiglia ebraica di Salomone Momolo Mortara e di sua moglie Marianna Padovani per prelevare il sesto dei loro otto figli, Edgardo (che all'epoca aveva sei anni) e trasportarlo a Roma dove sarebbe stato allevato dalla Chiesa.
La polizia agiva su ordine della Santa Inquisizione avallato da papa Pio IX. I rappresentanti della Chiesa riferirono che una cameriera cattolica della famiglia Mortara, la quattordicenne Anna Morisi, aveva battezzato il piccolo Edgardo[3] durante una malattia ritenendo che se fosse morto sarebbe finito nel limbo. Il battesimo di Edgardo lo rendeva cristiano e secondo le leggi dello Stato pontificio una famiglia ebraica non poteva allevare un cristiano. Le leggi dello Stato Pontificio non permettevano ai cristiani di lavorare per gli ebrei né agli ebrei di lavorare in casa di cristiani anche se la legge peraltro restava largamente disattesa. La stessa Morisi, secondo quanto riferito da Mortara, avrebbe ricevuto indicazione, sei anni dopo il fatto, di battezzare segretamente il fratello più piccolo di Edgardo, Aristide, anch'egli gravemente malato; la Morisi si rifiutò tuttavia di farlo, adducendo come ragione il fatto che aveva fatto analoga cosa per Edgardo reputando che non sarebbe sopravvissuto, e non voleva ripetere l'errore. Questa sua indiretta confessione portò quindi, con circa sei anni di ritardo, le autorità ecclesiastiche a conoscenza del fatto che Edgardo Mortara era stato battezzato all'insaputa dei genitori.
Il bambino fu portato a Roma presso la Casa dei Catecumeni, istituzione nata a uso degli ebrei convertiti al cattolicesimo, e mantenuta con i proventi delle tasse imposte alle sinagoghe dello Stato Pontificio. Ai suoi genitori non fu permesso di vederlo per diverse settimane e, quando in ottobre fu loro concesso, non poterono farlo da soli, in quei pochi istanti concessi di visita il ragazzo riuscì a confidare alla madre «Sai, la sera recito ancora lo Shemà Israel» ('Ascolta Israele: il Signore è nostro Dio...' - Deut. 6,4), altre possibilità di visita non furono più concesse [8] fino al 1870. Pio IX prese interesse personale alla storia e tutti gli appelli alla Chiesa, per il ritorno del piccolo presso i suoi genitori, vennero respinti.
Il caso giunse alla ribalta sia in Italia che all'estero. Nel Regno di Sardegna, che allora era Stato indipendente e fulcro dell'unificazione nazionale, sia il governo sia la stampa citarono l'accaduto per rafforzare le loro rivendicazioni alla liberazione delle terre italiane dall'influenza temporale dello Stato Pontificio.
Le proteste furono appoggiate da organizzazioni ebraiche e da figure politiche e intellettuali britanniche, statunitensi, tedesche e francesi; proprio a Parigi l'episodio, unito ad altri atti di antisemitismo messi in atto dalla Chiesa e da personaggi del mondo cattolico, fu lo spunto per la nascita dell'Alleanza Israelitica Universale. Ma le critiche non mancarono anche dai cattolici. L'abate francese Delacouture, docente di teologia, pubblicò sul quotidiano Journal des débats del 15 ottobre 1858 una sdegnata analisi del caso, ove lamentava che il rapimento del fanciullo Mortara era stato fatto "violando le leggi della religione, oltre quelle della natura".
Non passò molto tempo che i governi di tali Paesi si unirono al coro di chi chiedeva il ritorno di Edgardo dai suoi genitori. Venne pure ricordato il precedente caso Montel, avvenuto nel 1840 sotto papa Gregorio XVI, risoltosi diversamente poiché i genitori erano cittadini francesi[9]. Protestò anche l'imperatore francese Napoleone III, nonostante le sue guarnigioni permettessero al Papa di mantenere lo status quo in Italia.
Pio IX fu refrattario a tali appelli, principalmente provenienti da protestanti, atei ed ebrei. Quando una delegazione di notabili israeliti incontrò Edgardo nel 1859 egli disse: «Non sono interessato a cosa ne pensa il mondo». Inoltre nel suo memoriale annotò: «Allorché io venivo adottato da Pio IX tutto il mondo gridava che io ero una vittima, un martire dei gesuiti. Ma ad onta di tutto ciò, io gratissimo alla Provvidenza che mi aveva ricondotto alla vera famiglia di Cristo, vivevo felicemente in San Pietro in Vincoli e nella mia umile persona agiva il diritto della Chiesa, a dispetto dell'imperatore Napoleone III, di Cavour e degli altri grandi della terra. Che cosa rimane di tutto ciò? Solo l'eroico "non possumus" del grande Papa dell'Immacolata Concezione». In un altro incontro fece partecipare Edgardo per mostrare che il ragazzo era felice sotto le sue cure. Nel 1865 disse: «Avevo il diritto e l'obbligo di fare ciò che ho fatto per questo ragazzo, e se dovessi farlo lo farei di nuovo».
Secondo i sostenitori della correttezza dell'azione pontificia, i suoi genitori, contravvenendo a una precisa legge dello Stato pontificio, avevano assunto una domestica cristiana, Anna Morisi, che, vedendo il piccolo in punto di morte, lo battezzò di nascosto. Solo alcuni anni dopo, per una serie di circostanze, la ragazza svelò il fatto. La Chiesa proibiva il battesimo dei bambini di famiglie non cattoliche, ma aggiungeva che il sacramento poteva essere amministrato, anche contro il volere dei genitori, in punto di morte. II caso Mortara passò attraverso queste contraddizioni dottrinali e in questa situazione il papa pronunciò il suo non possumus (non possiamo). Essendo il battesimo religiosamente valido, da un punto di vista cattolico era dovere del Papa garantire al bambino un'educazione cristiana, non considerando né la non consapevolezza del bimbo quando ricevette il battesimo né il desiderio e la religiosità della sua famiglia d'origine. Si cercò inizialmente un compromesso con i Mortara: si provò a convincerli a far entrare il ragazzo in un collegio di Bologna: così sarebbe rimasto a contatto con la famiglia e a 17 anni avrebbe deciso il suo futuro, liberamente. Non fu trovato l'accordo con i genitori e nell'estate del 1858 il bambino fu portato via, a Roma
Il caso Mortara diffuse in Italia e all'estero l'immagine di uno Stato Pontificio anacronistico e irrispettoso dei diritti umani nell'età del liberalismo e del razionalismo, contribuendo a persuadere l'opinione pubblica in Francia e in Gran Bretagna sull'opportunità di permettere ai Savoia di muovere guerra contro lo Stato Pontificio. Quando Bologna, alla fine della seconda guerra d'indipendenza, fu annessa al Regno di Sardegna, i Mortara fecero un ulteriore tentativo di riavere il loro figlio, ma non ci riuscirono.
Nel 1867 Edgardo entrò nel noviziato dei Canonici Regolari Lateranensi. Dopo la presa di Roma del 20 settembre 1870, i coniugi Mortara tentarono nuovamente di riavere il figlio, ma Edgardo rifiutò di tornare. Alla presa di Porta Pia, meritando una medaglia al valore, aveva combattuto anche il tenente dei Bersaglieri Riccardo Mortara, fratello di Edgardo. Di fronte a questa posizione inaspettata, il nuovo questore della città si presentò nel convento di San Pietro in Vincoli, chiedendo al ragazzo di lasciare quella vita e ottenendo un nuovo rifiuto. Per sottrarsi a ulteriori sollecitazioni, forse anche su suggerimento di Pio IX, Edgardo lasciò la città e si recò prima in Tirolo, poi in Francia
L'anno seguente suo padre Momolo morì. In Francia Edgardo venne ordinato prete all'età di ventitré anni e adottò il nome di Pio. Venne inviato come missionario in città come Monaco di Baviera, Magonza, Breslavia per convertire gli ebrei, peraltro con scarso successo. Imparò a parlare nove lingue, incluso il basco. Durante una serie di conferenze in Italia ristabilì i contatti con la madre e i fratelli e tentò di convertirli. Nel 1895 partecipò al funerale della madre e due anni più tardi fu negli Stati Uniti, ma l'arcivescovo di New York fece sapere al Vaticano che si sarebbe opposto ai tentativi di Mortara di evangelizzare gli ebrei in terra americana e che il suo comportamento metteva in imbarazzo la Chiesa. Mortara morì l'11 marzo 1940 a Liegi, dopo aver passato diversi anni in un monastero

14/04/2022

New York, 1899. Tom Newman è vessato dai debiti. La sua attività di commercio di pezzi di ricambio per locomotive è sull’orlo del collasso. Nel giro di poche settimane sarà costretto a vendere la casa ed affidare le 2 figlie, Julie e Mary affette da sindrome di down, ad una levatrice del quartiere. Lasciare la città per fuggire dalle continue pressioni e minacce degli usurai era ormai una scelta obbligata. Una fredda notte di novembre del 1901, Tom affidò le 2 figlie malate alla vicina e partì. L’uomo non riuscì ad oltrepassare il quartiere, venne freddato con una rivoltella e gettato in una fogna.

Le figlie crebbero da sole nel totale degrado. La vicina di casa alla quale il padre le affidò, era una tossicodipendente di sostanze oppiacee. Le bambine erano mortificate e maltrattate, affamate per interi giorni. Nel 1904 la donna morì per una probabile overdose. Furono necessari 3 giorni affinchè le bambine gravemente denutrite fossero soccorse. Con la morte della vicina, alle 2 gemelle di 9 anni non restò che vivere in strada. Per diverso tempo la prostituzione fu l’unico modo per autosostentarsi. Verosimilmente nel 1908-1909 iniziarono i primi casi di sparizione: Alcuni clienti, fra cui un paio facoltosi, scomparvero nel nulla vicino a Broadway.

I clienti venivano spogliati, ubriacati/drogati e brutalmente assassinati con pietre e/o cocci di bottiglia. Non vi è un preciso e lineare ‘modus operandi’ delle sorelle, in quanto, avevano comunque una lieve insufficienza mentale. L’accanimento sui clienti, brutalmente smembrati e persino in alcuni casi decapitati, era probabilmente causa diretta dell’infanzia terribilmente traumatica vissuta. Nella maggior parte dei casi, i soldi ed averi delle vittime, non venivano toccati. Un’ossessione morbosa delle sorelle era lo scorneamento degli occhi dal bulbo oculare: Non si ha una spiegazione razionale a ciò, ma secondo i giornali dell’epoca, quando vennero arrestate, vennero rinvenuti una ventina di occhi, tutti con un iride con tonalità cromatiche differenti.

Non si hanno notizie certe sul numero esatto di decessi riconducibili alle persone delle 2 sorelle, alcune stime dell’epoca parlano di oltre 30 omicidi brutali. Nel 1919, le sorelle furono vittime di una trappola da parte della polizia metropolitana fintasi cliente. Vennero arrestate in flagranza, processate per direttissima e fucilate all’alba del 13 dicembre 1919. All’epoca non esisteva l’attenuante di infermità mentale ed il sistema carcerario era già al collasso. Sommarie esecuzioni erano all’ordine del giorno. In particolare il caso delle sorelle Newman indignò e disgustò l’opinione pubblica dell’epoca, sia per la brutalità degli efferati omicidi sia per l’aspetto mostruoso e malato delle sorelle.

12/04/2022

Gli anarchici della Baracca erano un gruppo di cinque ragazzi che persero la vita in un misterioso incidente stradale verificatosi nella notte del 26 settembre 1970, mentre si trovavano in viaggio verso Roma per consegnare a dei loro referenti materiale di denuncia riguardante la Strage di Gioia Tauro, avvenuta il 22 luglio 1970, e i contestuali fatti della rivolta di Reggio Calabria.
L'appellativo deriva dalla villa Liberty, nei pressi di Reggio Calabria, dove i giovani di area anarchica usavano ritrovarsi, la cosiddetta "Baracca". L'edificio fu costruito come alloggio d'emergenza dopo il terremoto del 1908 e diventò centro d'aggregazione per gli alternativi reggini negli anni sessanta.
Gianni Aricò, la fidanzata Annelise Borth detta "Muki" (tedesca), Angelo Casile, Franco Scordo, Luigi Lo Celso, svolsero opera di documentazione su due eventi accaduti nell'estate del 1970 noti come le giornate di Reggio in merito alle quali sostenevano l'infiltrazione di neofascisti di Ordine Nuovo e di Avanguardia Nazionale con l'obiettivo di strumentalizzare la piazza a fini eversivi, e il deragliamento del "treno del Sole" avvenuto il 22 luglio 1970 a Gioia Tauro, sostenendo che fosse stato causato da una carica esplosiva messa da neofascisti in collaborazione con la 'ndrangheta. Il gruppo comincia a prendere una sua fisionomia, anche rispetto al dibattito nazionale del movimento anarchico. Aderiscono come gruppo "Bruno Misefari" alla FAGI, il movimento giovanile della Federazione Anarchica Italiana (FAI).
Quando giudicarono di aver raccolto abbastanza materiale decisero di recarsi nella capitale per consegnarli alla redazione di Umanità Nova e incontrare l'avvocato Di Giovanni, che aveva collaborato alla contro-inchiesta sulla strage di Piazza Fontana. In particolare, Gianni Aricò aveva riferito alla madre di aver scoperto cose che «faranno tremare l'Italia», riferendosi alla loro inchiesta di "controinformazione" sull'attentato di Gioia Tauro.
Il viaggio, programmato in contemporanea all'arrivo a Roma del presidente statunitense Richard Nixon, e della manifestazione di protesta indetta il 27 settembre, termina a 58 km da Roma, tra Ferentino e Frosinone, dove la loro Mini Morris fu travolta da un camion. Angelo Casile, Franco Scordo e Luigi Lo Celso morirono sul colpo e gli altri due entrarono in coma e morirono poco dopo.
Martedì 29 settembre 1970 si svolgono a Reggio Calabria i funerali di Angelo Casile, Francesco Scordo e Gianni Aricò, mentre le esequie di Lo Celso si svolgono contemporaneamente a Cosenza.
«Un tragico incidente stradale ha stroncato la vita dei giovani anarchici Giovanni Aricò, Angelo Casile, Luigi Lo Celso, Francesco Scordo. Manifestiamo la nostra profonda ammirazione e gratitudine verso questi compagni che, animati da sublimi ideali, hanno dedicato la loro breve esistenza lottando tenacemente contro ogni forma di ingiustizia sociale in un continuo anelito di libertà e di amore verso i poveri, gli umili e gli sfruttati»
Sul luogo dell'incidente, l'inchiesta della Polizia Stradale stabilì un probabile errore del guidatore della Mini che portò l'auto a schiantarsi sul retro del camion fermo in corsia d'emergenza, con le luci spente. L'autotreno con rimorchio, targato SA 135371, alla cui guida c'è Alfonso Aniello e di proprietà del fratello Ruggero, si trova all'arrivo del magistrato «sulla normale corsia di marcia, tutte le luci sono funzionanti ad eccezione del gruppo (stop, lampeggiatore e posizione) del rimorchio, che è spento pur non essendo rotti i vetri dei fanalini». Scrive il magistrato Fazzioli:
«Dopo l'impatto una autovettura Mini Morris targata RC 90181, trovasi sulla corsia normale di marcia, con l'avantreno in direzione nord, la parte anteriore della detta autovettura si presenta completamente distrutta, il tetto scoperchiato. A circa venti metri dall'autovettura trovasi un autotreno con rimorchio, detto autotreno trovasi sulla corsia di marcia normale (…); il rimorchio risulta interessato dall'urto per circa la metà del postremo con inizio dall'estremo limite sinistro.»
I danni alla piccola auto, uniti alle luci posteriori del camion ancora intatti e ai maggiori danni dell'autotreno localizzati su una delle fiancate, sembrano però raccontare una storia diversa. Va sottolineato il fatto che i documenti e le agende dei ragazzi, richiesti dalle famiglie, non furono mai ritrovati.
Appare strano, poi, che poco dopo l'incidente fosse accorsa sul fatto la polizia politica proveniente da Roma e alcuni ipotizzano che i cinque fossero in realtà seguiti da polizia e servizi: tempo prima erano, infatti, stati ascoltati dal giudice Vittorio Occorsio per la strage di Piazza Fontana nell'ambito delle prime indagini sui circoli anarchici.
Sempre più strana fu, inoltre, il giorno prima della loro partenza, una telefonata ricevuta dal padre di Lo Celso da parte di un amico che lavorava alla polizia politica di Roma che lo ammoniva: «È meglio che non faccia partire suo figlio».
I due camionisti coinvolti, secondo le contro-inchieste portate avanti dagli anarchici, tra cui Giovanni Marini, erano dipendenti di una ditta facente capo al principe Junio Valerio Borghese, personaggio ben conosciuto nell'ambiente dell'estrema destra, nonché futura guida del tentato golpe di pochi mesi successivo a questo incidente; pare anche che, a comandare l'inchiesta sull'incidente della Polizia, vi fosse tale Crescenzio Mezzina, uno dei tanti partecipanti al detto golpe. Nel 1993 Giacomo Lauro e Carmine Dominici, due collaboratori di giustizia confermarono al giudice istruttore milanese Guido Salvini, che si occupava di eversione nera negli anni settanta, la presunta collusione tra ambienti d'estrema destra e 'ndrangheta e sostenne la diretta responsabilità di questi nei fatti di Reggio e nell'attentato di Gioia Tauro. Carmine Dominici dirà al giudice che:
«Personalmente ritengo che quello dei cinque ragazzi non sia stato un incidente ma un omicidio. E tale opinione è condivisa anche da altri militanti avanguardisti. Non sono assolutamente in grado di indicare chi potrebbe aver preso parte alla presunta azione omicidiaria e, peraltro, era illogico che ci si rivolgesse a militanti calabresi in quanto ciò avrebbe comportato un pericoloso spostamento geografico.»
Il 28 gennaio 1971 il procuratore generale di Roma restituisce il procedimento di indagine alla procura di Frosinone la quale, con decreto del giudice istruttore, archivia il caso come incidente autostradale.
Tuttavia, secondo la documentazione di Aldo Giannuli Bombe ad inchiostro che si rifà ai documenti dell'Ufficio affari riservati del Ministero dell'Interno:
«Non è vero, per esempio, come scritto, che i due camionisti che provocarono l'incidente, i fratelli Serafino e Ruggiero Aniello, fossero dipendenti di una ditta di estrema destra; i due camionisti, stando alle carte dell'UAAR (Ufficio affari riservati), sarebbero stati simpatizzanti del PSDI e non del Fronte Nazionale. Certo che erano dei veri pirati della strada questi fratelli Aniello, visto che il camion da loro portato, targato SA 135371, il 28 ottobre del 1970, causò un tamponamento, alle porte di Milano, in cui morirono 8 persone e ne restarono ferite 40.»
Mario Guarino attesta che Angelo Casile aveva stilato una lista di estremisti neri in contatto con la Dittatura dei colonnelli in Grecia pubblicata anche dall'Espresso.
Nel 2001 si sollevano nuovi dubbi sulla morte dei cinque anarchici, e il responsabile della direzione Antimafia calabrese Salvo Boemi ha definito «logica e plausibile» l'ipotesi che anche l'incidente in cui morirono i cinque ragazzi fosse stato, al pari di quello di Gioia Tauro, una strage; una strage organizzata per coprirne un'altra:
«Sono convinto che quei cinque giovani avessero trovato dei documenti importanti. Non riesco a spiegarmi in altro modo la sparizione di tutte le carte che si trasportavano nella loro utilitaria. È un caso che avrei desiderato approfondire [...] ma esistono insormontabili problemi di competenza»

20/03/2022

Blanche Monnier ha vissuto per 25 anni chiusa in una stanza della sua casa, a Poitiers, stesa su un letto, fra polvere, escrementi e follia.
Blanche era bella, bellissima e dolce.
Troppo bella, forse, per suo fratello e sua madre.
È passata alla storia come la Séquestrée de Poitiers, la Sequestrata di Poitiers.
Ma cosa le accadde?
Nel 1877 Blanche aveva 24 anni.
Conobbe e si innamorò di un ricco avvocato di Parigi. Era più grande di lei di 30 anni e questo alla sua famiglia non piaceva affatto. Anche lui l’amava, ma nonostante la serietà del loro legame, i genitori di Blanche fecero di tutto per dividerli.
Nel 1882 il padre della giovane morì, lasciandola sola con la madre Louise-Léonide Demarconnay e il fratello Marcel, un uomo piuttosto in vista nella società dell’epoca.
Blanche sparì. Nessuno riuscì più a parlare con lei, a capire cosa le fosse successo, perché il muro di solitudine che aveva costruito attorno a lei la famiglia era davvero invalicabile.
Passarono gli anni, 25 in tutto.
Il 22 maggio 1901 successe qualcosa.
Arrivò una lettera al Procuratore Generale di Poitiers in cui si diceva:
«[…] Signor Procuratore generale, ho l’onore di informarvi di un evento eccezionalmente grave. Parlo di una vecchia ragazza che è bloccata nella casa di Madame Monnier, in mezzo alla fame, e che vive in un letto sporco dagli ultimi venticinque anni – in una parola, nella propria sporcizia…»
Il Procuratore decise di indagare e il giorno dopo inviò a casa Monnier, in rue de la Visitation 21, la polizia.
Quello che trovarono confermava le parole della lettera. Blanche era chiusa a chiave in una stanza, buia e maleodorante, con pesanti tende alle finestre, ricoperte da uno strato di polvere, mai spostata, segno del passare lento e inesorabile del tempo. Pesava circa 30 kg, era sporca, spettinata e divorata dalla follia, generata dalla reclusione. La sua bellezza, il suo sorriso erano solo un ricordo, che aveva lasciato spazio al dolore e alla solitudine.
Chi la trovò scrisse di lei:
«Abbiamo immediatamente dato l’ordine di aprire la finestra dell’edificio. Questo fu fatto con grande difficoltà, perché dalle vecchie tende scure cadeva moltissima polvere. Per aprire le persiane, era necessario rimuoverle dalle cerniere a destra. Appena la luce entrò nella stanza, abbiamo notato, dietro, sdraiato su un letto, la testa e il corpo coperti da una coperta repulsivamente sporca, una donna identificata come Mademoiselle Blanche Monnier. La donna sfortunata si trovava completamente nuda su un materasso di paglia marcio. Tutto intorno a lei si formava una sorta di crosta fatta da escrementi, frammenti di carne, verdure, pesce e pane marcio. Abbiamo anche visto le conchiglie di ostriche e gli insetti che correvano nel letto di Mademoiselle Monnier. L’aria era così irrespirabile, l’odore dato dalla stanza era così forte, che era impossibile continuare con la nostra indagine.»
1º giugno 1901 entrò all’Hôtel- Dieu di Parigi, uno degli ospedali della città. Le due condizioni erano disperate.
In seguito fu trasferita Ospedale psichiatrico di Blois dove rimase per 12 anni. Morì a 64 anni, senza mai recuperare il suo equilibrio psico-fisico.
Il 20 novembre 1901 Marcel Monnier fu condannato a soli 15 anni di carcere.
La madre, Louise-Léonide, non scontò neppure un giorno di carcere, per problemi cardiaci. Morì l’8 giugno, 2 settimane dopo il suo arresto.
Sul caso di Blanche Monnier si è scritto molto; in Francia é stata varata una legge ispirata alla sua vicenda, sull’omissione di soccorso alle persone in difficoltà.
Quello che ci dovremmo chiedere è quante Blanche esistono al mondo, magari proprio vicino a casa nostra.

27/02/2022

La guerra è il più grande crimine perpetrato contro tutta l'umanità...

🇺🇦

23/12/2021

STEPHAN L. (1979-?)

È un obiettore di coscienza e presta servizio civile presso la Croce Rossa. Nel 2002, consegue il diploma di infermiere e la sua grande passione è “aiutare il prossimo”. In tutte le strutture sanitarie nelle quali lavora, i colleghi lo considerano una persona amichevole, servizievole, affidabile e molto professionale. Arrestato e processato per dieci omicidi, la polizia tedesca ha fondati sospetti che Stephan L. possa aver ucciso fino a ottanta pazienti, considerando l’aumento eccessivo del numero dei decessi durante i suoi turni di servizio. Inietta un miscuglio di barbiturici e di rilassanti muscolari e dice di averlo fatto perché «non riesco a sopportare di vedere la sofferenza delle persone»; giustifica i suoi omicidi sostenendo che tutte le vittime erano pazienti in fase terminale e che il suo compito era di «porre fine all’agonia». In realtà, l’esame sui cadaveri ha accertato che molti pazienti si stavano riprendendo bene dalle malattie e dalle operazioni alle quali erano stati sottoposti ed erano sulla via della guarigione. Contro la tesi dell’eutanasia, c’è anche il fatto che la miscela letale iniettata da Stephan L. provoca una morte lenta e dolorosa perché paralizza progressivamente i polmoni e blocca la respirazione. Le autorità tedesche non hanno comunicato il cognome dell’assassino seriale, ma soltanto la lettera iniziale.

Telephone

Website