ANPI Molise
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Messaggio a Vasco e a tutti affinché ognuno possa dare il meglio di sé non solo negli avvenimenti speciali ma sempre ogni giorno
Lettera aperta del Vescovo di Rimini a Vasco Rossi
Caro Vasco,
Mi permetto di darti del “tu” perché, pur senza averti mai incontrato personalmente, ti sento quasi come uno di famiglia.
Sono anni che, con amici e ragazzi, cantiamo le tue canzoni intorno al fuoco, sulla spiaggia, sotto la luna, fra le tende.
Mi chiamo Nicolò, e sono il Vescovo di Rimini.
Sono nato a Genova, ho vissuto nel centro storico, e insieme alle tue canzoni spesso le chitarre intonavano le note del concittadino Fabrizio De Andrè.
Volevo darti anch’io il benvenuto nella nostra città.
Hai scelto di iniziare a Rimini il tuo tour. Migliaia di giovani e adulti ti attendono, alcuni accampati da giorni fuori dallo stadio.
Su molti di loro tu eserciti un’influenza potente.
In questi giorni tanti ragazzi e giovani si sono generosamente coinvolti nell’aiutare le popolazioni alluvionate della tua, nostra regione.
Sono venuti da tutt’Italia, tanti anche da Rimini: molti di loro li conosco personalmente.
Hanno spalato fango, lavato mobili, distribuito pasti, spostato rottami e detriti.
Alla sera erano esausti ma felici; hanno servito, faticato, aiutato, amato chi si trovava in situazioni di grande difficoltà e di lutto. Tutto il mondo ha visto la loro bellezza interiore.
Permettimi ora di dire una “cosa da prete”: questi ragazzi e giovani hanno manifestato la forza e la capacità di amore di Gesù che è dentro di loro, che è dentro tutti, credenti e non credenti, di ogni religione.
Se puoi, incoraggiali – magari anche dal fronte del palco del ‘R. Neri’ – a continuare così, ad essere generosi sempre, attenti verso chi soffre, verso i malati, verso chi è straniero e fatica ad inserirsi, disponibili a tenere compagnia ad un anziano, ad aiutare un bambino in difficoltà con lo studio, a stare vicino a chi si sente solo e vuoto. Se vuoi, invitali a non spegnere mai quel desiderio d’infinito che si trova nel cuore di ogni uomo, lo stesso che abita sulle “Dannate nuvole”.
Se puoi, suggerisci loro a non aver paura di una “vita spericolata” e ad “andare al massimo” nell’amore verso gli altri, gli esclusi, i fragili, verso tutti. Chi vuol “trovare un senso a questa vita” lo può trovare nel rendere felici gli altri. Perché chi dona la sua vita la trova, e c’è più gioia nel dare che nel ricevere.
Grazie di cuore.
Ti accompagno con la preghiera,
+ Nicolò Anselmi
Vescovo di Rimini
(Viviana)
Francesco Ciavarella, 27 anni, impiegato, ucciso alle Fosse Ardeatine perché antifascista
NO ALLE DISUGUAGLIANZE TERRITORIALI
FOCUS SULL’ AUTONOMIA DIFFERENZIATA
ORE 15.30 - Presentazione iniziativa
Paolo DE SOCIO, Segretario CGIL Molise
Saluti
Roberto GRAVINA, Sindaco di Campobasso
Loreto TIZZANI, Presidente ANPI Molise
ORE 16.00 - Relazioni introduttive
Gianfranco VIESTI, Docente Università di Bari
Micaela FANELLI, Vicepresidente ALI
ORE 17.00 - Dibattito
Conduce
Giovanni MANCINONE, Giornalista
Intervengono:
Vincenzo LONGOBARDI , Presidente Confindustria Molise
Michele BARONE, Uniti per la Costituzione
Chiara IOSUE, Legacoop Molise
Sabrina DEL POZZO, Funzione Pubblica CGIL Molise
Gaetano BOVA, RSU FLC CGIL Molise
Conclusioni
Carmine RANIERI, Segretario CGIL Abruzzo - Molise
Che cos'è il coraggio oggi ce lo insegnano questi ragazzi. Sono gli studenti di medicina dell'università afghana di Nangarhar.
Saputo che il governo talebano avrebbe vietato alle donne di seguire i loro stessi corsi universitari, hanno abbandonato le aule tra gli applausi delle compagne. E sono andati a manifestare al grido "Tutti o nessuno".
Consci dei rischi, consci di cosa potrebbe accadere loro.
Eppure pronti a fare la loro parte.
Siete grandi e avervi abbandonato a quella gente è stato una vergogna.
Fonte: Leonardo Cecchi
ANPI Molise alla Università della Terza Età lezione su Fascismo Antifascismo e Pstfascismo
Tavenna non dimentica: il ricordo della fucilazione di Vincenzo Simone e Giuseppe Di Lena Tavenna non dimentica: il ricordo della fucilazione di Vincenzo Simone e Giuseppe Di Lena
Sembra un racconto dell'orrore, ma è tutto realmente accaduto tra il 30 settembre e il 5 ottobre 1944.
E purtroppo tutto questo non è mai finito in molte parti del mondo.
"__ 30 settembre 1944 __ BRUNA ZEBRI 🥀
della STELLA ROSSA, era incinta:
i soldati tedeschi la squarciarono, presero il feto e lo infilzarono con le baionette.
Tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944 i paesi di Marzabotto, Monzuno, Grizzana Morandi e moltissime piccole località fra Setta e Reno subirono alcuni degli atti più efferati:
è l' , durante il quale un battaglione delle SS con la complicità di alcuni fascisti della RSI, ucciderà più di 770 persone.
Tra queste , che all’epoca dei fatti aveva appena diciotto.
Il 1944 le SS raggiunsero Colulla di Sopra, la località nella quale viveva la famiglia Zebri. Il padre Mario e il figlio Pietro, convinti, come molti altri in quei tragici giorni, che i tedeschi stessero cercando uomini per deportarli in Germania, abbandonarono la propria dimora al mattino e si nascosero tra i boschi. Quando tornarono, nel pomeriggio, gli si presentò davanti agli occhi la peggiore visione possibile. Tutti i loro familiari erano stati uccisi. Tra questi la moglie Florinda, il figlio Bruno e le figlie, Matilde e Bruna: entrambe avevano aderito fin dal gennaio del ‘44 alla Stella Rossa.
Ma la visione più terrificante Mario doveva ancora incrociarla: il feto del piccolo che Bruna portava in grembo, rimosso dalla pancia squarciata della madre e infilzato con le baionette.
Bruna merita di essere ricordata tra le tante persone che pagarono un prezzo altissimo per aver sostenuto, protetto, ospitato e aiutato le donne e gli uomini della , contribuendo in maniera decisiva alla lotta di Liberazione.
(da Cannibali e Re)
www.mamafricaonlus.it
Maria
Ne internarono 600mila. I tedeschi li rastrellarono dall’Italia, dalla Jugoslavia, dalla Grecia, dalla Francia.
Dopo l’8 settembre, più di mezzo milione di italiani finì nei campi di concentramento.
Li picchiavano, li trattavano come subumani. Li facevano lavorare come schiavi nell’industria pesante. Li riducevano a cercare topi, rane, bucce lasciate dai soldati tedeschi.
Morirono a decine di migliaia per il freddo, la malnutrizione, le botte, le esecuzioni.
L’8 settembre, quando un re vigliacco firmò un armistizio giusto senza però assumersi nessuna responsabilità, e anzi fuggendo al Sud per mettersi al riparo, condannò tanti connazionali che già avevano sofferto per la guerra. Li condannò alla morte, la schiavitù, l’oppressione.
Oggi che è l’8 settembre ricordiamo chi di loro non ce l’ha fatta.
E ricordiamo la scelta più giusta che gli italiani presero anni dopo: mandare via a pedate un re codardo che dopo aver dato al Paese vent’anni di dittatura si salvò la pelle a spese di quella di centinaia di migliaia di connazionali.
Fonte: Leonardo Cecchi
Pochi giorni fa Giorgia Meloni - e a ruota tutti i suoi valletti - ha ripetuto la solita litania che “con lei potremmo finalmente avere la prima donna premier”.
Le ha risposto indirettamente una che qualcosa di donne, di diritti e di femminismo (vero) se ne intende: Michela Murgia.
Lo ha fatto rovesciando alla perfezione la “tesi” e demolendola una volta per tutte con agio persino imbarazzante.
“Ogni volta che incontro una donna potente, quello che mi chiedo è: che modello di potere sta esercitando?
Se usa la sua libertà per ridurre o lasciare minima quella altrui, questo non è femminista.
Che sia di destra o di sinistra, se chiama meritocrazia il sistema che salvaguarda il suo privilegio di partenza e nega i diritti di altre persone, questo non è molto femminista.
Che sia di destra o di sinistra, se il suo modello di organizzazione dei rapporti è la scala e non la rete, nemmeno questo è particolarmente femminista.
Che sia di destra o di sinistra, se la sua visione della fragilità altrui è paternalista e l’unica soluzione che le viene in mente è una protezione che crea dipendenza, questo è il contrario del femminismo.
Che sia di destra o di sinistra, se per lei le funzioni patriarcali sono più importanti delle persone che le svolgono, questo senz’altro non è femminista.
È quindi inutile chiedersi se Giorgia Meloni sia femminista o non lo sia solo perché è a capo di un partito. Fatevi domande sul suo modo di esercitare il potere e vedrete che il dubbio neanche vi viene”.
Amen.
Fonte: Lorenzo Tosa
È nato in Etiopia.
È stato adottato nel 2001 insieme ai suoi 5 fratelli da una coppia di Milano, dopo un periodo trascorso in orfanotrofio ad Addis Abeba.
Stasera Yeman Crippa ha vinto la medaglia di bronzo sui 5000 metri agli europei di atletica leggera a Monaco.
-Luca Paladini
Raccontò tutto. Tutto quello che sapeva e vedeva. Denunciò i brogli, le violenze, gli squadristi, senza remore, senza paura, senza tralasciare nulla. Un discorso che durò quattro ore, tra gli schiamazzi, gli insulti e le minacce dei fascisti.
Quando ebbe finito, l’onorevole Giacomo Matteotti si voltò verso i compagni al suo fianco e staccò dalle labbra questa frase sinistramente profetica:
“Io il mio discorso l’ho fatto, ora voi preparatemi l’orazione funebre”.
Sapeva quello a cui andava incontro, undici giorni dopo, quando fu rapito, massacrato di botte e infine accoltellato tra l’ascella e il torace, a bordo della Lancia Lambda su cui cinque fascisti lo avevano appena prelevato.
Infine, mesi dopo, il cane di un brigadiere in licenza trovò il suo corpo, dilaniato e in avanzato stato di decomposizione, in un bosco di Riano, alle porte di Roma.
Era il 16 agosto del 1924, oggi.
Il giorno in cui l’Italia p***e definitivamente, anche agli occhi dei più “distratti”, l’innocenza.
Con lui fu fatto sparire un uomo dalla statura morale inarrivabile, lo statista rigoroso, il socialista inflessibile, il resistente, l’uomo solo sul cui sangue Mussolini ha inaugurato di fatto il suo regime.
Guai dimenticare.
Tutti dovremmo inchinarci davanti alla grandezza di Giacomo Matteotti, ancora oggi simbolo di lotta e resistenza, ovunque nel mondo ci sia da combattere per la democrazia e per la libertà contro ogni fascismo.
Fonte: Lorenzo Tosa
Le chiesero i nomi dei suoi compagni, degli altri partigiani. Irma Bandiera non parlò.
Decisero allora di torturarla per farla parlare. Lo fecero per sei giorni consecutivi, e lei ancora non parlò. Arrivati a quel punto, i nazifascisti l'accecarono. Ma anche lì, Irma non diede loro neanche un nome.
Dopo tutto questo, dopo le torture a cui Irma rispose sempre con il silenzio, ebbero un’idea La trascinarono fuori casa dei suoi genitori, devastata, dolorante a causa delle torture. La scagliarono sul marciapiede e uno dei torturatori le disse: “Ne vale la pena? Dacci qualche nome, e potrai entrare in casa. Dietro questa finestra ci sono tua madre e tuo padre”.
Un’ultima volta, Irma Bandiera non proferì una parola.
Quel 14 agosto 1944, l’ammazzarono lì davanti, a Meloncello di Bologna, con dei colpi di pi***la, davanti a casa dei suoi genitori.
Alle donne e agli uomini come Irma Bandiera, che hanno dato la vita per combattere l’invasore e per la libertà, il ricordo di tutto il Paese.
Fonte: Leonardo Cecchi
Meditiamo e non dimentichiamo
Li chiusero tutti in una stalla, donne, bambini, anziani. Poi, dato che era piena di fieno, i tedeschi iniziarono a sparare da un lato con il lanciafiamme, mentre dall’altro, dall’ingresso, altri si paravano davanti alla porta per impedire la fuga.
Mario Marsili aveva sei anni, era lì solo con sua madre Genny e i nonni. Tra le grida e la disperazione di gente che stava morendo bruciata, Genny pensava solo ad una cosa: salvare suo figlio. Fece quindi nascondere Mario dietro ad una porta, più lontano dal fuoco: “Stai qui e non ti muovere” gli disse, e lui obbedì.
Ma a un certo punto un soldato tedesco si fece avanti. Con qualche passo in più avrebbe notato Mario, avrebbe capito che lì nascosto si sarebbe salvato dalle fiamme e gli avrebbe sparato. Allora Genny, che aveva già capito che da lì non sarebbe uscita viva, ebbe un’unica preoccupazione: proteggere suo figlio e farlo ad ogni costo. Lo fece allora nell’unico modo che aveva a disposizione: cercando di distrarre il soldato tirandogli uno zoccolo di legno. L’espediente riuscì, perché il soldato non vide Mario, ma costò la vita a Genny, che venne immediatamente falciata da un colpo di mitraglietta. Cadde accanto a Mario e morì soffocata dal sangue.
Mario rimase dietro quella porta mentre la stalla andava a fuoco. Ci rimase otto ore.
Lo tirarono fuori dei soccorritori. Ustionato, aveva persino i polmoni scoperti.
Si salvò per miracolo grazie all'amore di una madre e alle suore di un convento che curarono quel bambino ustionato e rimasto orfano, e che oggi è uno dei pochi sopravvissuti ad uno dei più grandi orrori del nostro Paese, la Strage di Sant’Anna di Stazzema, dove ammazzarono 560 persone, di cui 110 bambini, targata quel nazismo che oggi ancora si annida nel nostro Paese.
Alla forza di quest'uomo, che da più di settant'anni vive con questa atrocità sulle spalle, e che pure continua a girare in lungo e in largo per non far dimenticare quell'orrore, il nostro più alto saluto raccontando la sua storia che merita di esser raccontata ogni anno il 12 agosto.
Fonte: Leonardo Cecchi
Durante il suo concerto a Gallipoli, Ariete, pseudonimo di Arianna Del Giaccio, splendida cantautrice e compositrice, ha voluto prendere posizione su Giorgia Meloni e sulla sua ignobile concezione dei diritti.
“Non so se avete letto il programma che Giorgia Meloni ha proposto. Voglio solamente dirvi di leggerlo e di pensare bene se voterete o se i vostri genitori pensano di votare quella persona lì, perché è limitante, brutto e ci sono tanti punti che non funzionano. Quello non è un programma democratico.
Non facciamoci mettere i piedi in testa da una persona che ci dice che offerte di lavoro dobbiamo accettare, come dobbiamo crescere i nostri figli, chi amare, quando farlo e come farlo.
Se non avete letto il programma, leggetelo, perché è importante informarsi. Qui siete tutti accettati per come siete, l’importante è che non facciate del male al prossimo. Amate chi vi pare, siate chi vi pare, l’importante è che vi vogliate bene”.
Per questa uscita pubblica orde di meloniani la stanno mettendo alla gogna con il classico del repertorio: “Pensi a cantare”. “Zecca rossa”. “Ma chi c*** è Ariete?”.
Ve lo dico io chi è: un’artista di 20 anni che ragiona con la sua testa, che, di fronte a una destra stile Orban, ci mette pubblicamente la faccia e la voce.
Di questi tempi, un miracolo.
Fonte: Lorenzo Tosa
Termoli 25 aprile
Termoli 25 Aprile 2022
Guglionesi incontro stdenti I.Omnicomprensivo
Roma per la pace
Incontro Liceo Guglionesi
Quest’immagine è un pezzo di storia del ciclismo e dello sport in generale.
Ritrae Biniam Girmay, 22 anni, ciclista eritreo, che ha appena tagliato per primo il traguardo di Jesi, diventando il primo ciclista africano nero ad aver vinto una tappa del Giro d’Italia.
E sulla destra un grande campione come l’olandese Mathieu van der Poel. Che, mentre è ancora sui pedali e si vede battuto, alza il pollice in segno di approvazione e riconosce la sconfitta e la grandezza dell’impresa del suo avversario.
Un gesto di rara sportività. Una favola vera. Una gran bella pagina di questo sport meraviglioso che è il ciclismo.
Se andò tra le braccia del padre, aveva solo ventitré anni. Crivellato dai colpi, morì di "altruismo". Morì per non essersi voltato dall'altra parte.
Maurizio Estate era un "semplice" lavoratore di un autolavaggio. E il 17 maggio 1993, quando vide due camorristi rapinare un uomo, decise che la cosa più giusta da fare fosse intervenire. Iniziò a gridare, corse verso di loro e intervenne direttamente. Riuscì a sventare la rapina e ad evitare il peggio.
Un gesto semplice, ma spontaneo e di grande valore.
Lo pagò poche ore dopo, quando dai Quartieri Spagnoli, su ordine del boss, i camorristi tornarono all’autolavaggio per vendicarsi. Spararono all’impazzata, coperti da passamontagna. Lo crivellarono di colpi e Maurizio morì tra le braccia del padre, che lavorava anch’egli nell’autolavaggio.
Era il 17 maggio 1993 e lui aveva solo 23 anni.
Medaglia d’oro al valor civile, è stato un grande esempio di senso del dovere, di coraggio.
Ricordando cosa sono le mafie e il male che provocano ogni giorno, il pensiero oggi va a questo ragazzo, assassinato per non essersi voltato dall’altra parte.
Fonte: Leonardo Cecchi
Lo chiamavano “il Falcone dell’America Latina” per le sue rare doti investigative, la profonda conoscenza delle mafie e del narcotraffico, l’incorruttibilità assoluta.
Lo chiamavano perché poche ore fa Marcello Pecci, procuratore antimafia di origini italiane in Paraguay, 45 anni, è stato raggiunto in spiaggia su un’isola colombiana nel suo ultimo giorno di luna di miele e ammazzato a colpi d’arma da fuoco da due sicari delle narcomafie.
Pecci è morto poco dopo in ospedale, 10 giorni dopo essersi sposato, il 30 aprile. Aspettavano un bambino.
Poco tempo fa Pecci aveva denunciato le pesanti infiltrazioni della ‘ndrangheta in Paraguay. E forse anche per questo è stato fatto fuori.
Un omaggio a questo grande servitore dello Stato.
Ma uomini come Pecci andrebbero protetti prima, invece che essere celebrati come eroi poi. Falcone e Borsellino insegnano, e il pensiero oggi più che mai va a Gratteri.
Non scordiamolo mai.
Fonte: Lorenzo Tosa
Strage di Bologna, la sentenza dei giudici della Corte d'assise Gli inquirenti avevano considerato i mandanti il capo della P2 Licio Gelli, Umberto Ortolani, Federico Umberto D’Amato e Mario Tedeschi