Studio Medico - Neuropsichiatria. Psicoterapia, Farmacologia, Criminologia
Medico con formazione psicoterapeutica, specialista in Farmacologia, Dottore in Scienze Neurologiche
La solitudine disturba il sonno, riduce la durata
La solitudine disturba il sonno, è collegata a una durata inferiore del riposo notturno e anche a maggiori difficoltà di addormentamento. Lo rivela uno studio pubblicato sulla rivista Sleep Health, condotto presso la University of Wisconsin a Milwaukee. I ricercatori hanno intervistato 71 studenti universitari che hanno valutato il loro livello percepito di solitudine in quattro momenti del giorno per un periodo di due settimane. Durante questo periodo, i partecipanti hanno indossato dispositivi di actigrafia che hanno misurato la durata e l'efficienza del sonno. Dallo studio è emerso che la solitudine quotidiana è legata a una peggiore qualità e quantità del sonno. I punteggi medi più alti di solitudine nell'arco della giornata erano correlati a un sonno più breve (6,6 ore in media), a una qualità più scadente e a una maggiore stanchezza diurna.
Punteggi di solitudine estremi in un dato giorno si associano alla necessità di un tempo più lungo per addormentarsi (22,4 minuti in media) la notte successiva e a livelli di stanchezza più elevati la mattina successiva. "La solitudine colpisce milioni di giovani in tutto il mondo - afferma Kayla Johnson, autrice principale dello studio. È fondamentale che ulteriori ricerche approfondiscano il rapporto tra solitudine e sonno, in modo da poter elaborare interventi volti a migliorare la qualità del sonno tra i giovani adulti", conclude.
La depressione in gravidanza potrebbe aumentare i rischi per il cuore
Depressione in gravidanza e post-partum (perinatale), che colpiscono una donna su cinque nel mondo, potrebbero aumentare il rischio cuore per la mamma nei decenni a ve**re. Lo rivela uno studio diretto da Emma Bränn del Karolinska Institutet di Stoccolma e pubblicato su European Heart Journal. Lo studio ha incluso dati su circa 600.000 donne, evidenziando legami più forti con i rischi di ipertensione, malattia cardiaca ischemica e insufficienza cardiaca. "Il nostro gruppo di ricerca ha già scoperto che la depressione perinatale è legata a un aumento del rischio di diversi altri problemi di salute, tra cui disturbi premestruali, disturbi autoimmuni e comportamenti suicidari, oltre alla morte prematura", sottolinea Bränn.
Lo studio si è basato sul Registro Medico delle Nascite Svedese: i ricercatori hanno confrontato 55.539 donne con depressione perinatale tra il 2001 e il 2014 con un altro gruppo di 545.567 donne svedesi che avevano anche partorito nello stesso periodo ma senza depressione perinatale. Tutte le donne sono state seguite fino al 2020 per valutare se sviluppassero malattie cardiovascolari. Tra quelle con depressione perinatale, il 6,4% ha sviluppato malattie cardiovascolari rispetto al 3,7% delle donne che non avevano sofferto di depressione perinatale. Questo equivale a un rischio superiore del 36% di sviluppare malattie cardiovascolari. Il loro rischio di ipertensione era circa il 50% più alto, il rischio di malattia cardiaca ischemica circa il 37% più alto e il rischio di insufficienza cardiaca circa il 36% maggiore. "Rimane poco chiaro come la depressione perinatale porti a malattie cardiovascolari. Dobbiamo fare più ricerca per capire questo, così da trovare i modi migliori per preve**re la depressione e ridurre il rischio di malattie cardiovascolari", conclude Bränn.
Un grande ringraziamento ai miei nuovi follower! Sono felice di avervi tra noi! Fabrizia Lanza, Pietro Musso, Roberto Tanganelli
Cervello. Depressione e memoria si “influenzano” a vicenda nelle persone anziane
Nelle persone anziane la depressione e la memoria sono strettamente correlate e sembrano “influenzarsi” a vicenda. È la conclusione cui è giunto lo studio di un team dell’University College di Londra (UCL) e della Brighton and Sussex Medical School, coordinato da Dorina Cadar.
I ricercatori hanno esaminato dati provenienti da 8.268 adulti inglesi, con un’età media di 64 anni, raccolti nell’ambito dell’English Longitudinal Study of Aging (ELSA) in cui i partecipanti rispondono ogni due anni a un’ampia serie di domande. Dall’analisi è emerso che le persone che avevano sintomi depressivi elevati presentavano maggiori probabilità di andare incontro, alcuni anni dopo, a un declino della memoria più rapido; inoltre coloro che avevano una scarsa memoria erano maggiormente soggetti a un successivo aumento dei sintomi depressivi.
Non è stato trovato un nesso di causalità, anche se il team di studio ipotizza che la depressione possa influenzare la memoria attraverso squilibri neurochimici, cambiamenti strutturali nelle regioni del cervello coinvolte nell’elaborazione della memoria e interruzioni della capacità cerebrale di riorganizzarsi e formare nuove connessioni.
Inoltre, i disturbi della memoria possono anche derivare da fattori psicologici negativi. Infine, le persone che hanno vuoti o difficoltà di memoria possono provare frustrazione, perdita di fiducia e andare incontro a isolamento sociale, tutti fattori scatenanti di episodi depressivi. “Il nostro studio mostra che la relazione tra depressione e scarsa memoria è trasversale e suggerisce che gli interventi per ridurre i sintomi depressivi possono aiutare a rallentare il declino della memoria”, conclude Dorina Cadar.
Fonte: JAMA Network Open 2024
Sigot: Alzheimer, la prevenzione è possibile nel 40% dei casi. Il vademecum dei geriatri per evitare la demenza
NEUROLOGIA REDAZIONE DOTTNET | 27/05/2024 14:41
Dalla comunità dei geriatri parte anche l’appello alla politica per aggiornare il Piano Nazionale sulle Demenze, fermo al 2014 e senza riferimenti alle RSA, nonostante il 70% delle 350mila persone ricoverate abbia una qualche forma di demenza
Sono oltre sei milioni le persone in Italia interessate direttamente o meno dalle demenze. Si stima che siano circa 1,1-1,2 milioni di persone, a cui si devono aggiungere circa quattro milioni di familiari e badanti coinvolti e circa 900mila persone con deficit cognitivo lieve (Mild Cognitive Impairment – MCI). Non esistono cure, ma è possibile una prevenzione che eviti o ritardi la comparsa dei sintomi nel 40% dei casi. Le strategie vanno da un corretto stile di vita, base dell’invecchiamento in salute, alla stimolazione cognitiva e alla socializzazione, fino ad una gestione geriatrica che abbia una visione complessiva della persona. Questo è uno dei temi al centro del 38° Congresso Nazionale della Società Italiana Geriatria Ospedale e Territorio, che si tiene fino al 24 maggio a Roma presso l’Hotel Ergife. Presidenti del Congresso sono il Prof. Lorenzo Palleschi, Presidente SIGOT Nazionale, Direttore Unità Operativa Complessa di Geriatria e del Dipartimenti Internistico dell’Azienda Ospedaliera San Giovanni-Addolorata, Roma, e il Prof. Francesco Vetta, Direttore UOC Cardiologia UTIC Ospedale di Avezzano e Professore di Cardiologia Unicamillus.
IL VADEMECUM SIGOT PER LA PREVENZIONE DELLE DEMENZE – La prevenzione dell’Alzheimer e delle demenze in generale è possibile intervenendo sui fattori di rischio nel corso di tutta la vita. La prevenzione include la possibilità di stimolazione cognitiva (per esempio strategie di allenamento della memoria), socializzazione, attività fisica e dieta adeguata secondo i principi dell’invecchiamento attivo o healthy aging, e quanto dimostrato dalla ricerca scientifica (si pensi ad esempio ai risultati del Finger Study basato su alimentazione, esercizio fisico, stimolazione cognitiva, controllo dei fattori di rischio vascolari e metabolici).
"Il declino cognitivo è evitabile, ma dipende dal patrimonio genetico, dall’ambiente in cui viviamo e dallo stile di vita, ossia i comportamenti durante tutto il corso dell’esistenza, a partire dall’attività fisica e dalla dieta – spiega Luca Cipriani, Direttore UO Geriatria ASL Roma 1 e Vicepresidente SIGOT –. La letteratura scientifica sull’Alzheimer identifica dodici fattori di rischio modificabili: istruzione inadeguata, ipertensione, deficit uditivo, fumo, obesità, depressione, inattività fisica, diabete, scarso contatto sociale, lesioni cerebrali traumatiche, abuso di alcol, inquinamento atmosferico. Il rischio potenzialmente modificabile è del 40%. Le azioni specifiche che si possono prendere includono il mantenimento della pressione sanguigna sistolica al di sotto di 130 mm Hg nella mezza età, la promozione dell’uso di apparecchi acustici, la riduzione dell’esposizione all’inquinamento atmosferico e al fumo passivo, la prevenzione delle lesioni cerebrali, la limitazione del consumo di alcol, lo scoraggiamento del fumo, un buon livello di istruzione, il contrasto all’obesità e al diabete, una buona qualità del sonno. Occorre inoltre attribuire un ruolo centrale alla geriatria, affinché possa prendere in carica la persona anziana che è a maggior rischio di sviluppo di demenza".
LA MANCANZA DI UN NUOVO PIANO NAZIONALE DEMENZE DAL 2014 - Più del 40% degli ultra 75enni vive da solo ed è a rischio di solitudine; inoltre, essendo aumentata la vita media, la probabilità di incorrere nel decadimento cognitivo e nella demenza è molto alta rispetto al passato. I dati più recenti emergono dal Report dell’Istituto Superiore di Sanità pubblicato a inizio 2024, che stima anche il costo annuo della demenza in 23 miliardi di euro, il 63% dei quali a carico delle famiglie.
"La prevalenza dell’Alzheimer e delle demenze in generale è in aumento, in quanto si tratta di un tema legato all’invecchiamento, fenomeno che interessa da vicino il nostro Paese – sottolinea Andrea Fabbo, direttore della UO di Geriatria della AUSL di Modena e Vicepresidente SIGOT. – La demenza è una sindrome ad alto impatto, che aumenterà nei prossimi anni., creando ulteriori difficoltà e stress nelle famiglie, viste le complicanze legate ai disturbi del comportamento (agitazione, problemi del sonno). Si deve pertanto potenziare l’assistenza sia a domicilio che nelle strutture, visto che il 70% delle 350mila persone ricoverate nelle RSA ha una qualche forma di demenza; al tempo stesso si deve creare una rete che permetta alle persone con demenza e ai loro caregiver di poter essere gestiti nella comunità. Il Fondo nazionale Alzheimer di 35 milioni di euro permetterà alle regioni di proseguire i progetti iniziati nell’organizzazione della rete dei centri per i disturbi cognitivi e le demenze; l’obiettivo a cui stiamo lavorando al tavolo tecnico coordinato dal Ministero della Salute è un nuovo Piano Nazionale, visto che il precedente risale al 2014 e non si occupa della residenzialità. Questo ambizioso obiettivo potrà essere raggiunto se inserito nell’agenda politica del Paese".
IL MODELLO MODENA PER LE DEMENZE – Un esempio virtuoso nella prevenzione e nella gestione dei disturbi cognitivi è quello di Modena dove è ben strutturata una rete di servizi (dall’ospedale al territorio) che si occupa non solo della diagnosi, cura ed assistenza delle persone con demenza e del suo caregiver, ma anche degli anziani "a rischio", per esempio attraverso progetti di comunità come "le Palestre della memoria", luoghi di aggregazione dove le persone esercitano le proprie funzioni cognitive in compagnia. "L’approccio alla patologia non risiede solo nella capacità di cura di un farmaco, ma nel ricorso a diverse azioni che possono risolvere specifici aspetti dell’Alzheimer – spiega Andrea Fabbo che ne è responsabile –. Oggi abbiamo la possibilità di erogare trattamenti di tipo non farmacologico (i cosiddetti ‘interventi psicosociali’), che possono rallentare il decorso della demenza e che eroghiamo nella nostra rete di cura. Offriamo poi supporto ai familiari con interventi sia a domicilio che nelle residenze, interventi educativi e terapia occupazionale, di affiancamento, tutoring, sostegno socio-relazionale al caregiver, percorsi di sostegno psicologico individuale o di gruppo e interventi di supporto psico-educativo, iniziative di formazione".
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Disagio giovanile, quasi il 50% dei 18-25enni soffre d'ansia
PSICHIATRIA REDAZIONE DOTTNET | 29/05/2024 18:08
Censis-Agenzia Nazionale dei Giovani, in parte dovuto a pandemia
Tra ansia, depressione e isolamento, il disagio giovanile è una realtà che non sempre viene percepita dai familiari e che si combatte con l'ascolto. Disturbi in parte ereditati dalla pandemia come rivela il Rapporto "Generazione Post Pandemia: bisogni e aspettative dei giovani italiani nel post Covid 19", elaborato da Censis, Consiglio Nazionale dei Giovani e Agenzia Nazionale dei Giovani. Il 49,4% degli italiani tra i 18 e i 25 anni ha infatti affermato di avere sofferto di ansia e depressione a causa dell'emergenza sanitaria. Per la stessa ragione, il 62,1% ha cambiato la propria visione del futuro. Proprio per raccogliere dati indicativi dei disagi che vivono quotidianamente, Lundbeck Italia e Your Business Partner hanno realizzato il progetto scuole "Mi vedete?". Secondo la ricerca, il 71% degli intervistati dice di provare un disagio, mentre, tra i genitori, solo il 31% si accorge dei problemi del figlio. Il 100% dei docenti, invece, denuncia questa situazione. Il 27,6% degli studenti incolpa la sfera familiare, ma quasi a parimerito con la scuola. Se per i genitori, invece, la causa è da attribuire principalmente all'ambiente scolastico (39%), i docenti dicono che è dovuto nel 37% alla famiglia e poco (12%) alla scuola.
"Notiamo che ogni adulto incolpa l'altro di ciò che avviene - spiega Sergio De Filippis, Docente di Psichiatria delle Dipendenze all'Università di Roma La Sapienza e consulente scientifico del progetto -. Ognuno deve avere la forza di educare l'adolescente, ed è qui che le Istituzioni devono dare una mano. Secondo lo State of Children in the European Union del 2024, si stima che tra i ragazzi di età tra i 15 e i 19 anni circa l'8% soffra di ansia e il 4% di depressione". Tra i problemi, anche l'uso di sostanze (54%), i disturbi alimentari (38%) e del sonno (63%), il bullismo (38%). "Il compito di chi opera nel settore è fornire ai ragazzi ciò che li può aiutare a sviluppare un benessere della mente e a favorire un equilibrio delle relazioni sociali, familiari e formative - conclude Alberto Siracusano, Ordinario di Psichiatria Università di Roma Policlinico Tor Vergata e Coordinatore del Tavolo Tecnico Salute Mentale del Ministero della Salute -. La promozione di un nuovo piano d'azione nazionale per la salute mentale vedrà grande attenzione all'età evolutiva e alla transizione all'età adulta".
Ritornano i farmaci psichedelici per le cure mentali
FARMACI REDAZIONE DOTTNET | 30/05/2024 18:00
Gli esperti: "Cautela, ma enorme potenziale terapeutico"
I 'farmaci' psichedelici potrebbero tornare a supporto delle cure delle malattie mentali dopo anni di oblio e condanna. Se ne è parlato al congresso nazionale della Società Italiana di Psichiatria, che quest'anno celebra 150 anni, in corso a Verona. Psilocibina (funghetti magici), Mescalina (Pe**te Cactus), DMT (dimetiltriptamina), come Ecstasy e Ketamina "bandite negli anni '70-'80 perché ritenute dotate di un alto potenziale di abuso e prive di un apprezzabile valore medico - spiega Liliana Dell'Osso, presidente SIP - col nuovo millennio sono tornate al centro dell'interesse scientifico rimanendo tuttavia in bilico tra chi frena e e chi si spinge in avanti intravedendo un enorme potenziale terapeutico". A tornare a trattare l'argomento anche Rick Doblin, presidente del Multidisciplinary Association for Psychedelic Studies (MAPS), nel libro "Essential Guide to Psychedelic Renaissance", e una serie di studi sperimentali promossi da istituzioni scientifiche quali John Hopkins University, New York University, UCLA, Imperial College of London. Si sta facendo, inoltre, sempre più strada un'apertura delle Agenzie Regolatorie Europee, Americane, Inglesi ed Australiane rispetto ad un utilizzo terapeutico di queste sostanze.
Sugli psichedelici classici "sono presenti numerosi studi in letteratura. In particolare, per la psilocibina, molecola che risulterebbe efficace nella depressione resistente - dichiara Emi Bondi, presidente uscente SIP -.Sapendo che la prevalenza di questa malattia si aggira intorno al 6% della popolazione, potremmo riferirci al 2% della popolazione generale che potrebbe beneficiare di questo tipo di trattamento". Giancarlo Cerveri, responsabile della sessione al congresso SIP, oltre che primario di psichiatria a Lodi precisa che "l'effetto è immediato e va supportato da un intervento di tipo psicologico e la somministrazione va effettuata in un ambiente sanitario-. I benefici persistono per mesi e la psilocibina non appare a rischio di dipendenza". Tra gli psichedelici atipici, la Ketamina è stata ampiamente utilizzata per la depressione resistente e un suo derivato (Esketamina) è già utilizzata anche in Italia per questa tipologia di disturbo. Infine, nel Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD), "l'utilizzo di un empatogeno come M**A (nota con il nome di ex**sy), associato a psicoterapia, sembra produrre risultati promettenti", conclude Cerveri.
Il Politecnico di Zurigo sviluppa un gel per annullare gli effetti dell’alcol
giovane beve da una bottiglia
Il gel riduce gli effetti negativi dell'alcol in tutti gli organi.
Un gruppo di ricerca del Politecnico federale di Zurigo (ETHZ) ha messo a punto un gel che sopprime gli effetti dell'alcol, impedendogli di passare nel sangue. La sostanza è stata sperimentata su dei topi. Sono ora necessari test clinici affinché il prodotto sia autorizzato per gli esseri umani.
Il nuovo gel sviluppato all’ETHZ potrebbe permettere di consumare alcolici senza subirne gli effetti nocivi. Test effettuati sui topi hanno infatti mostrato che il preparato scompone l’alcol nel tratto gastrointestinale prima che entri nel flusso sanguigno.
“La nostra tecnologia potrebbe offrire una soluzione innovativa nella lotta contro il problema globale dell’abuso di alcol”, ha detto a Keystone-ATS il professor Raffaele Mezzenga, direttore dell’Istituto di scienze dell’alimentazione presso l’ETHZ e responsabile dello studio i cui risultati sono pubblicati sulla rivista Nature NanotechnologyCollegamento esterno.
Da usare prima o durante l’assunzione di alcol
L’alcol che viene ingerito passa dallo stomaco all’intestino, dove viene assorbito nel flusso sanguigno e quindi trasportato al fegato. Lì la maggior parte dell’alcol viene scomposta grazie ad enzimi in varie sostanze, in particolare nella cosiddetta acetaldeide che poi viene trasformata in acido acetico. È proprio la sostanza intermedia ad essere tossica e a danneggiare il fegato.
“Il gel converte l’alcol in acido acetico senza produrre acetaldeide”, spiega Mezzenga. Ciò significa che se viene assunto prima o durante il consumo di alcol, lo converte prima che entri nel flusso sanguigno. “Se l’alcol è già nel sangue è invece troppo tardi”, precisa il ricercatore.
Allevia i sintomi della sbornia
Prima che il gel possa essere approvato per l’uso nell’uomo saranno necessari test clinici. “Abbiamo in programma di effettuarli presto”, dichiara il professore. I ricercatori hanno inoltre già richiesto un brevetto per il nuovo gel e ipotizzano diversi campi di applicazione.
“Abbiamo dimostrato che l’uso del nostro gel in combinazione con l’alcol dà ai topi un comportamento simile a quello dei topi sobri: sono più vigili e attenti”, afferma Mezzenga. “Ci aspettiamo quindi che il gel abbia anche un effetto positivo nell’alleviare i sintomi della sbornia”.
Un sottoprodotto della produzione di formaggio
Nel mondo si stima che il consumo eccessivo di alcol uccida più di 3 milioni di persone ogni anno. “Non intendiamo in alcun modo incoraggiare il consumo di alcol”, precisa ancora il professore. Lo studio offre comunque “prove evidenti che la nostra tecnologia riduce gli effetti negativi dell’alcol in tutti gli organi come il fegato, l’intestino e così via”.
Il gel è prodotto a partire da una proteina del siero del latte che a sua volta è un sottoprodotto della produzione di formaggio. Questa proteina viene bollita per diverse ore in modo da formare lunghi filamenti ai quali vengono aggiunti acqua e sale per formare la gelatina.
I ricercatori hanno poi aggiunto ferro, glucosio e oro, ottenendo così il prodotto che innesca una serie di reazioni a cascata che alla fine convertono l’alcol direttamente in acido acetico.
AFFIDABILITÀ E INTELLIGENZA: UNA CORRELAZIONE SINCRONICA
L affidabilità personale è direttamente proporzionale al grado di libertà consapevole che consente di rispettare gli accordi.interpersonali, al di fuori da contratti formali, oneri, responsabilità o penalità pecuniarie
In breve si tratta della cosiddetta data #
L affidabilità di una persoba risulta viceversa inversamente proporzionale al grado di schiavitù derivata dall impulsività emozionale
Anche nei rapporti umani, e in quelli sentimentali in particolare, la libertà è data dal rispetto degli accordi ed è quindi un segno distintivo indelebile di intelligenza e di evoluzione della mente, mentre la prigionia della volubilita è la dimostrazione palese della rigidità involutiva.di un proto-pensiero assai primitivo.
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Fibromialgia e emicrania hanno fattori in comune? Nuove prospettive di diagnosi e cura
REUMATOLOGIA REDAZIONE DOTTNET | 09/05/2024 15:15
La Fondazione Italiana per la Ricerca in Reumatologia (FIRA) ha finanziato una ricerca presso il Policlinico Gemelli di Roma per indagare la presenza di biomarcatori e la potenziale utilità dei farmaci monoclonali in uso per l’emicrania
Trovare finalmente un biomarcatore in grado di diagnosticare la fibromialgia e rappresentare un possibile target da colpire con farmaci avanzati già disponibili per altre patologie ampliando gli strumenti a disposizione per curare questa sindrome: sono gli obiettivi della ricerca che la dottoressa Annunziata Capacci (nella foto), responsabile Ambulatorio Fibromialgia del Policlinico Universitario Agostino Gemelli di Roma, presso la UOC di Reumatologia diretta dalla Professoressa Maria Antonietta D’Agostino, sta portando avanti per conto di FIRA, la Fondazione Italiana per la Ricerca in Reumatologia.La fibromialgia è una delle cause più comuni di dolore cronico diffuso ed è spesso caratterizzata dalla compresenza di sintomi quali stanchezza, difficoltà di concentrazione, astenia, disturbi del sonno, ma anche ansia, depressione e cefalea. Esiste una forma primaria della malattia, non associata ad altre patologie, e una forma secondaria che insorge in pazienti che hanno già altre malattie reumatologiche (come la Sindrome di Sjogren o altre connettiviti, l’artrite reumatoide, la spondiloartrite o artrite psoriasica). Si calcola che il 2-4% della popolazione generale ne sia affetto, di cui l’80% donne, con un’età media fra i 30 ed i 50 anni.
La diagnosi è resa complessa dall’estrema variabilità dei sintomi e dall’assenza di biomarcatori e spesso giunge in ritardo, dopo anni dall’esordio dei sintomi. "Un’urgente necessità medica per la fibromialgia è l’individuazione di biomarcatori per definire la malattia e caratterizzarne il fenotipo e la gravità. Clinicamente la fibromialgia ha molte caratteristiche proprie della sensibilizzazione centrale e l’alta prevalenza di fibromialgia in associazione all’emicrania suggerisce che possano condividere una causa comune" spiega la dott.ssa Capacci. "In particolare, abbiamo ipotizzato che i pazienti affetti da fibromialgia possano avere elevati livelli di CGRP, il peptide che da tempo si ritiene possa giocare un ruolo fondamentale nella fisiopatologia dell’emicrania. Di conseguenza nel nostro studio valuteremo se in pazienti affetti da fibromialgia ed emicrania, trattati per quest’ultima secondo indicazione neurologica con farmaci anti CGRP, la terapia porti benefici anche per la fibromialgia".
FIRA, grazie alla raccolta fondi del 5x1000, ha sovvenzionato con un bando di 50.000 euro questo nuovo progetto di ricerca, avviato a luglio 2023, coordinato dalla dott.ssa Capacci, coadiuvata da dott.ssa Giulia Calabrese e dai medici specializzandi del Policlinico Gemelli di Roma. "Se la nostra ipotesi fosse confermata aprirebbe la strada a nuove possibilità terapeutiche. Si potrebbero usare farmaci già approvati per l’emicrania anche per il trattamento della fibromialgia, ampliando gli strumenti a disposizione per migliorare la qualità di vita dei pazienti" sottolinea la dott.ssa Capacci.
Lo studio intende arruolare 200 pazienti affetti da fibromialgia, di cui 100 che soffrono solo di fibromialgia e 100 anche di emicrania (con 20 pazienti come controllo), che verranno visitati ogni 3 mesi nell’arco di un anno. Durante le visite verranno effettuati esami del sangue e della saliva per capire se vi sono differenze significative nei livelli di CGRP nei due gruppi in esame e rispetto alla popolazione di controllo. "Partecipare a uno studio di questo tipo è un’opportunità preziosa perché si può dare il proprio contributo per la ricerca in una patologia ancora piuttosto orfana, che dispone di pochi dati e poche sieroteche dove poter attingere" aggiunge la dott.ssa Capacci.
Ad oggi le cause della fibromialgia non sono del tutto chiare: si ritiene che ci sia una combinazione di predisposizione genetica (familiarità), con eventi di vita stressanti (traumi, interventi chirurgici, malattie, etc.); inoltre, a livello del sistema nervoso centrale sono state documentate numerose alterazioni dei neuro-trasmettitori o di sostanze ormonali che determinano l’alterata percezione del dolore.
Il trattamento della patologia è di tipo integrato e si basa su quattro pilastri: educazione del paziente, fitness (attività aerobica, thai-chi, yoga, pilates, ginnastica posturale, nuoto, etc.), psicoterapia e farmacoterapia. Attualmente nessun farmaco riporta l’indicazione per l’utilizzo in fibromialgia ma in pratica clinica vengono utilizzati integratori, farmaci miorilassanti, anti depressivi e anticonvulsivanti, a seconda dei sintomi prevalenti. È fondamentale un approccio il più possibile personalizzato e graduale, basato su obiettivi condivisi con il paziente.
"Come per altre malattie reumatologiche, la ricerca scientifica sta facendo compiere fondamentali passi avanti nella diagnosi e cura di patologie che fino a qualche decennio fa avevano un impatto altamente invalidante sui pazienti. Anche per la fibromialgia è necessario ampliare le nostre conoscenze sui meccanismi che regolano la malattia per poter compiere un salto di qualità nel trattamento dei sintomi. Siamo fiduciosi che questa ricerca della dott.ssa Capacci che FIRA sostiene possa dare un utile contributo su cui la comunità reumatologica italiana è pronta a collaborare" sottolinea il prof. Carlomaurizio Montecucco, Presidente di FIRA e ordinario di Reumatologia dell’Università di Pavia al Policlinico San Matteo.
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Bradicinesia, rigidità e tremore hanno dinamiche neuronali diverse
NEUROLOGIA REDAZIONE DOTTNET | 14/05/2024 13:28
Una ricerca internazionale apre nuove prospettive per la cura del Parkinson
Una ricerca internazionale apre nuove prospettive per la cura del Parkinson
La bradicinesia (lentezza nei movimenti) e la rigidità muscolare - sintomi caratteristici della malattia di Parkinson - hanno un’evoluzione indipendente e rispondono in maniera diversa ai trattamenti nel corso del tempo. È quanto hanno scoperto i ricercatori dell’I.R.C.C.S. Neuromed di Pozzilli (Isernia), dell'Università Sapienza di Roma e dell'Università di Grenoble, attraverso uno studio condotto in collaborazione con altri colleghi di istituzioni scientifiche italiane ed internazionali. Prima dei risultati di questa nuova ricerca si pensava infatti che, contrariamente al tremore, bradicinesia e rigidità fossero strettamente correlati tra loro nella progressione della patologia.
La ricerca, pubblicata sulla prestigiosa rivista scientifica Annals of Neurology, ha esaminato i dati clinici di 301 pazienti affetti da malattia di Parkinson trattati con stimolazione cerebrale profonda (Deep Brain Stimulation - DBS) e seguiti per quindici anni. Questa terapia prevede l’inserimento di elettrodi all'interno del cervello in grado di regolare il funzionamento di alcuni circuiti nervosi attraverso impulsi elettrici, migliorando i disturbi tipici della malattia di Parkinson. Una sorta di "pacemaker" per il sistema nervoso, si potrebbe dire. Si tratta di un intervento noto per il suo impatto positivo sui sintomi motori della malattia di Parkinson, ma fino ad ora, la comprensione di come i diversi sintomi rispondano al trattamento nel lungo termine è stata limitata.
"Con il nostro studio - afferma il professor Antonio Suppa, coordinatore della ricerca - abbiamo scoperto che la bradicinesia e la rigidità, pur essendo entrambi sintomi motori, mostrano evoluzioni cliniche differenti dopo l’intervento di stimolazione cerebrale profonda. Questo ci fa pensare che i meccanismi alla base della bradicinesia e della rigidità possano essere diversi tra loro, un dato che apre la strada ad una nuova interpretazione dei meccanismi neuronali implicati nella malattia di Parkinson".
"La ricerca - conclude il dottor Alessandro Zampogna, primo autore dello studio - indica che una personalizzazione del trattamento, adattandolo alle caratteristiche del singolo paziente, potrebbe migliorare significativamente la qualità della vita dei malati. Per questo motivo le prossime ricerche punteranno proprio ad approfondire le modalità di stimolazione cerebrale profonda e, soprattutto, ad esplorare come le variazioni nei parametri di stimolazione possano influenzare diversamente i sintomi cardine della malattia".
Alessandro Zampogna*, Antonio Suppa*, Francesco Bove, Francesco Cavallieri, Anna Castrioto, Sara Meoni, Pierre Pelissier, Emmanuelle Schmitt, Stephan Chabardes, Valerie Fraix, Elena Moro. Disentangling Bradykinesia and Rigidity in Parkinson’s Disease: Evidence from Short- and Long-term STN-DBS. Annals of Neurology 2024; In Press.
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