Domenico Capano

Domenico Capano

Scritti di Domenico Capano e altri Autori

03/07/2024

In transform! Italia, 19 giugno 2024, Sergio Dalmasso, Giacomo Matteotti, cento anni dopo, e in sergiodalmasso.com, sezione Archivio, Scritti storici, Articoli e saggi

Un socialista riformista

Giacomo Matteotti, cento anni dopo. Se il cinquantenario dell’assassinio di Giacomo Matteotti era passato in sordina, anche a causa della complessa situazione politica italiana,
se per decenni la sua figura è stata ricordata limitandola agli ultimi, drammatici, giorni (discorso alla Camera, rapimento, uccisione),
il centenario permette una riflessione più ampia sulla sua figura e sulle vicende del socialismo italiano negli anni che vanno dal primo dopoguerra all’avvento del regime fascista.

Matteotti nasce nel 1885 a Fratta Polesine, da una famiglia benestante, di possidenti.

La ricchezza della famiglia e i sospetti sulle sue origini, legati alla accusa di usura, gli costeranno attacchi e calunnie sino alla definizione di socialista milionario, legata anche al suo portamento aristocratico.

Il bisogno di giustizia e di solidarietà, in un’area geografica segnata da povertà del mondo contadino, malattie endemiche, disoccupazione, gli fanno considerare come privilegio la propria condizione e lo spingono, giovanissimo, ad iscriversi alla organizzazione giovanile del PSI e, nel 1904, al partito.

Laureato precocemente, nel 1907, è incerto tra la carriera accademica e l’impegno politico,

ma scioglie l’incertezza con molti incarichi amministrativi, con l’assidua collaborazione al periodico polesano “La lotta”, nel 1914 con la partecipazione al congresso nazionale del partito, sino all’elezione al parlamento, nel 1919 (rinnovata, quindi, nel 1921 e nel 1924).
Nel PSI, Matteotti si colloca nella componente riformista.

Questa perde la maggioranza nel 1912, al congresso di Reggio Emilia, quando viene espulsa la corrente di destra (Bissolati) accusata di appoggiare il governo Giolitti anche dopo l’inizio della guerra di Libia.

L’accusatore più netto e reciso è il romagnolo Benito Mussolini, nominato direttore dell’“Avanti!” che modificherà nettamente nell’impostazione e nello stile giornalistico.

Segretario politico è Costantino Lazzari.

Questo riformismo si caratterizza per il rifiuto del massimalismo, dell’estremismo verbale, per l’attenzione alle questioni amministrative, ai temi tecnici, economici,

finanziari, per l’opposizione alla proposta dello sciopero generale che l’“Avanti” reitera con insistenza (prova generale della grande rivoluzione che sostituirà la classe dominata alla dominante).

È netta la sua opposizione all’intervento nella grande guerra.

È durissimo contro il trasformismo di Mussolini, passato nel giro di breve tempo Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante (fondo sull’“Avanti” del 18 ottobre 1914) … CONTINUA.

Download completo saggio di SERGIO DALMASSO : Giacomo Matteotti, cento anni dopo:
https://www.sergiodalmasso.com/download/18149/?tmstv=1719992564

Photos from Domenico Capano's post 31/07/2023

Quaderno 71, per ricordare Danilo attraverso la sua raccolta di novelle postume intitolate Demoni e scaricabili gratuitamente dal seguente indirizzo:https://www.sergiodalmasso.com/wp-content/uploads/2023/07/Quaderno-CIPEC-Numero-71.pdf

11/12/2022

Poesie di Salvatore Armando Santoro

La poesia è la mia vita
https://www.sergiodalmasso.com/09/12/2022/poesie-di-salvatore-armando-santoro/

Salvatore Armando Santoro, nato il 16 marzo del 1938, scrive poesie da quando aveva 14 anni. La poesia lo accompagna da allora e oggi riempie gran parte delle sue giornate. Vi sono periodi in cui compone 4 poesie al giorno.

Le scrivo di getto, la poesia è la mia vita, mi riferisce. Un estemporaneo poeta o un poeta alieno?
Ha perso il conto di quante ne ha scritte e donate, ma saranno quasi diecimila. Incredibile, e Complimenti!
Tante sono contenute al seguente indirizzo: http://www.poetare.it/santoro/santoro6.html (e pagine precedenti), dove è presente una sua breve biografia, tante altre sono sparse in altri spazi nel web.

In questo articolo propongo un suo libro di poesie intitolato: La sabbia negli occhi, (Collana di Letteratura Romantica).

Prelevo un paio di poesie dal portale www.poetare.it: “Un fiore rosso” e “12 gennaio 1999” dedicata, quest’ultima, a Fabrizio De André.

Un fiore rosso

Un fiore rosso
in un vaso d’argilla
collocato sui gradini d’una casa
d’un vecchio borgo maremmano.

Una farfalla
corteggia le corolle
e sul calice si posa.

Un raggio di sole l’accarezza
e dà colore
alle sue ali ondeggianti
al vento.

La tristezza d’una giornata opaca
si colora di luce
ed accarezza il cuore.

12 gennaio 1999
(A Fabrizio De André)

Peccato che tu non mi veda,
peccato che tu non mi senta,
non avrei parole da dirti,
potresti soltanto capirmi,
scrutando in fondo al mio cuore,
più in fretta vederlo vibrare,
guardando il mio viso
soffrire,
e gli occhi, … in silenzio,
brillare.

E, non può mancare in queste righe - dedicate al poeta Salvatore Armando Santoro - la poesia pacifista intitolata: “Il Piave mormorava” presente nelle 42 de “LA SABBIA NEGLI OCCHI”, a cui l’autore tiene molto e, declamata anni fa (25 aprile 2008) nella trasmissione radiofonica belga Brussellando.

Il Piave mormorava

Scorre il Piave, a Nervesa pianeggiante,
ma il passato non potrà dimenticare
quando misto al sangue rosseggiante
impotente fluiva verso il mare.

E trasportava tanti cadaveri d’alpini,
insieme a migliaia di fanti massacrati
per difendere in guerra quei confini
che con la pace son stati cancellati.

Penosa ovunque è la vita delle genti,
di chi vuol vivere in pace col vicino
costretto a subir gli intrighi dei potenti
assetati del misero sangue contadino.

È triste che la traccia d’un pennino
su una carta, mi divida da un amico
e, stabilisca, che quel mio vicino
per legge diventi un mio nemico;

e in nome e per conto del governo
esser costretti ad una f***e guerra,
in trincea passar più d’un inverno
per difendere quella stessa terra

che insieme abbiamo sempre lavorato,
dove il grano abbiamo un dì raccolto
senza l’intralcio d’un filo spinato
che la libertà di transito ci ha tolto.

Oggi per legge di nuovo siamo amici:
io una gamba sul Piave ci ho lasciato
e il mio vicino ha perso, tra i nemici,
i fanti che le figlie avean sposato.

Ma la lezione non sembra mai servire!
I morti stan lì, schierati nei sacrari,
eppur qualcuno continua a costruire
nuovi steccati per chiuder gli avversari.

Ed in funzione di effimeri profitti
si alimenta nei cuor l’antagonismo
utile per fare esplodere i conflitti
e far crescere l’odio ed il razzismo.

Salvatore Armando Santoro (Lillianes 28/02/2000 - 0.27)

Torino, 9 dicembre 2022
Domenico Capano

Photos from Domenico Capano's post 31/03/2022

https://www.sergiodalmasso.com/quaderni-cipec-31-69/quaderno-cipec-n-69/
" Introduzione

Negli ultimi anni, i Quaderni CIPEC hanno offerto contenuti un po’ atipici:
quattro (addirittura) hanno raccolto interventi di consiglieri (Mario Giovana, Lucio Libertini e – si parva licet- miei) del Consiglio regionale piemontese, ovviamente in legislature diverse.
Uno ha raccolto il bel saggio di Gianni Ferretti A sinistra di internet, tema che richiederebbe maggiori approfondimenti e letture, anche da punti di vista complementari. Ricordo la presentazione, svolta a Genova Prà, al collettivo Burrasca.
Uno ha raccolto una parte delle novelle che l’amico Danilo Zannoni ha scritto. Dietro alla capacità letteraria, agile e discorsiva, credo che ognun* abbia potuto scorgere gli aspetti sociali ed ecologici dei racconti.
Riprendiamo, con questo numero, i temi storici che hanno caratterizzato questa pubblicazione. La prima uscita è del lontanissimo 1995, distante anni luce, e contiene l’intervista a Lucia Canova, figura storica della sinistra cuneese; molte interviste ad attori/attrici della storia della provincia di Cuneo sono comparse nei numeri successivi. Due quaderni sono stati dedicati alle statistiche elettorali (risultati e grafici) in provincia. È un peccato che manchi una pubblicazione che copra il periodo successivo al 2001 (termine a quo di questi). Due altri raccontano le vicende della sinistra politica nella provincia di Cuneo, dal 1945 al 1958, centrato sulle scelte politiche di Antonio Giolitti e quindi dal 1958 al 1976, punta massima raggiunta da PCI, PSI e nuova sinistra nella “provincia bianca”. Sono, pur nei loro limiti, derivati dalla scarsità delle fonti (giornali e interviste), ad oggi, i soli testi sul tema.

Ancora, qualche incursione su temi nazionali (il PCI, il socialismo italiano, Rifondazione…), la trascrizione di dibattiti e conferenze, alcune interviste a figure locali (ricordo la bella serata a Boves con Liliana Pellegrino e il commovente incontro a Luzzara – Reggio Emilia – con Desiderio Fornasari, dal 1946 al 1951 sindaco di quel comune). Non poteva mancare un numero sul Che (storia, immagine, mito, interpretazioni…).

Questo numero ripubblica, dopo parecchio tempo, l’elenco dei quaderni precedenti e delle attività svolte dal CIPEC, a Cuneo, nei decenni. L’elenco di iniziative da me svolte serve a ripercorrere un percorso di piccola e non certo fortunata militanza intellettuale, spesso insufficientemente seguito per impegni politico- partitici.

Contiene, poi, l’intervento svolto al seminario di Rimini (novembre 2021) in occasione del decimo anniversario della morte di Lucio MAGRI. Ho tentato, lottando contro il tempo tiranno, di mettere in luce elementi di continuità tra il Magri di fine anni ’60 e quello della seconda “rivista del manifesto” (1999- 2004) su molti temi: la ricerca di una alternativa, inizialmente letta nella via consiliare, il richiamo alla figura di Gramsci, la centralità della scuola e della formazione, ma anche alcune diversità, rilevabili in particolare dopo la sconfitta elettorale del 1972 e le scelte successive (ipotesi del governo delle sinistre, successivo ingresso nel PCI).

Segue un abbozzo di storia di Rifondazione nella provincia di Cuneo. Dico nel testo e ripeto qui – che è una storia minore, di una formazione che ha sempre avuto dimensioni modeste, nonostante una discreta attività – che può essere discussa l’impostazione data, a cominciare dal fatto che è scritta da persona che ha vissuto, giorno per giorno, i fatti raccontati e i dibattiti svolti.

La storia termina nel 2013, anno in cui lascio il cuneese e sbarco in quel di Genova, nei caruggi del centro storico.

Vi sono idee per i prossimi numeri. Spero che idee vengano da chi ha la pazienza di leggerci e di seguirci, sulla carta e on line.

Un grazie alla stamperia della provincia di Cuneo che, anche se con tiratura ridotta, si accolla, sino al 2024, la stampa di questa pubblicazione.

Speriamo di festeggiare insieme il trentesimo anniversario.

Genova, 31 marzo 2022

s. d. "

03/08/2021

La servitù feudale nella contea di Arena
Saggio inedito di Francesco Romanò.
Il livello qualitativo del saggio è elevato, da non perdere.
http://www.comunedasa.it/forum/topic.asp?TOPIC_ID=500
Vista dell'abitato di Arena e della vallata dal castello Normanno oggetto in questo periodo di scavi archeologici.http://www.comunedasa.it/public/admin_upload/202183143651_La%20Servitu%20feudale%20nella%20contea%20di%20Arena.pdf

Photos from Domenico Capano's post 05/07/2021

Mastrufuanzu (maestro Alfonso) e l'antico mulino ad acqua del XIII secolo.
Documento di 19 pagine presente ai seguenti indirizzi:
https://www.academia.edu/49538161/Mastrufuanzu_il_mulino_e_la_fontanahttp://www.comunedasa.it/dasa/Mastrufuanzu.pdf

19/03/2021

Lelio Basso spiega il suo articolo 3 della Costituzione italiana

30/12/2020

Il monumento ai caduti di Dasà nella I guerra mondiale.
Monumenti gemelli sparsi per l'Italia.
di domenico capano
Documento completo ai seguenti :http://www.comunedasa.it/public/admin_upload/20201230165146_Il%20monumento%20ai%20caduti%20dasaesi%20della%20grande%20guerra.pdf
https://www.academia.edu/44808247/Il_monumento_ai_caduti_dasaesi_della_grande_guerra

14/12/2020

Nella mia libreria:

06/12/2020

Breve recensione nuovo libro di Franco Di Giorgi. Saggio su IBSEN

Covid19 - Sergio Dalmasso storico del movimento operaio italiano 06/11/2020

COVID-19
QUANTO RESTA DELLA NOTTE?
di Franco Di Giorgi
Già per tutta la prima fase del disumano lockdown, costernati dalla normalità con la quale il Coronavirus falcidiava quotidianamente la vita dei più anziani e dei più fragili, gli Italiani, pur senza poter ottenere alcuna risposta certa, continuavano a domandare ai loro governanti e ai numerosi virologi: A che punto è la notte?( Vedi articolo Coronavirus sul sito Sergio Dalmasso). Vale a dire, quanto durerà questa pandemia?
Abituati ai tempi rapidi dettati dai loro dispositivi smart, dai loro sempre aggiornati device, formati soprattutto nel pragmaticismo esasperato da una verità intesa come utile, essi rimasero esterrefatti di fronte all’insicurezza in cui li aveva gettati da un giorno all’altro il virus, all’incertezza delle risposte dei politici e degli esperti, ai tempi biblici che si profilavano dinanzi alle loro menti, rese ancora più confuse dall’intrattenibile e monotono trascorrere del tempo, come pure dal restringersi angoscioso dello spazio all’interno delle loro case e delle loro stesse scatole craniche.
Quasi a voler gettare svogliatamente alle spalle quella lunga notte che si prospettava ben più durevole di una primavera, nella seconda fase, quella estiva, essi, ostinati e pur inondati dal limo atmosferico, vollero illudersi che quella notte era ormai finita, che la nottata stava per passare, e che nella solita spensieratezza estiva, nell’intoccabile ritualità delle ferie, si poteva intravedere l’aurora, l’alba di un nuovo giorno in cui poter continuare a fare quanto avevano sin qui fatto e commesso.
Ma ora, in questo autunno dell’umanità, in questa terza fase che si annuncia più tremenda della prima, perché li coglie ancora impreparati nonostante la pur affannosa preparazione; ora che il Covid-19 esprime davvero la sua pandemica carica distruttiva; ebbene ora, come gli Edomiti dinanzi a Isaia, gli Italiani ritornano a rivolgere agli stessi politici e ai soliti medici del comitato scientifico il medesimo e assillante interrogativo: Sentinelle, quanto resta della notte? Sta finendo o no questa notte? Si diradano o no queste tenebre?
Questa volta però, sconvolti dalle dure conseguenze dell’ultimo dpcm, non lo fanno più cantando allegramente dai balconi, ma occupando rabbiosamente le piazze e le vie delle città.
Come il profeta, anche gli interpellati rispondono alle loro richieste enigmaticamente: ’atàch boqèr vegàm-lailàh, “Viene il mattino, poi anche la notte”. È la traduzione letterale della Conferenza Episcopale Italiana. Ma, come al solito, quella di Lutero è assai più significativa: “Wenn auch der Morgen kommt, so wird es doch Nacht bleiben”, “Anche se giunge il mattino, permarrà pur sempre la notte”. Sarà dunque facile ingannarsi alla dubbia luce del crepuscolo, vedere l’alba nel tramonto.
Ivrea, 29 ottobre 2020

Covid19 - Sergio Dalmasso storico del movimento operaio italiano Covid19. Coronavirus in Italia. Quanto durerà la notte? Già per tutta la prima fase del lockdown, normalità con la quale il Coronavirus

12/09/2020

Quaderno 66, online. Contiene, tra l'altro, il testo di Giovanni Ferretti: A SINISTRA DI INTERNET, su tematiche attualissime:https://www.sergiodalmasso.com/wp-content/uploads/2020/09/Quaderno-CIPEC-Numero-66.pdf

La condizione postmoderna della scuola e il desiderio di “normalità” 17/06/2020

Pubblicato oggi su volere la luna l'articolo di Franco DI GIORGI postato su questa pagina in data 30 maggio 2020:
https://volerelaluna.it/cultura/2020/06/17/la-condizione-postmoderna-della-scuola-e-il-desiderio-di-normalita

La condizione postmoderna della scuola e il desiderio di “normalità” di Franco Di Giorgi -- Da tempo la questione del potere si coniuga con l’informatizzazione del sapere. E c’è chi prospetta collegamenti programmati a una banca dati o connessioni a un solo computer che forniscano in simultanea e in remoto un sapere manualistico o digitale a migliaia o a milioni...

15/06/2020

Tratto dal libro di Danilo Zannoni Scrivere è come vivere, solo che è più semplice "Raccontalo a tuo figlio", interprete Cristina Campanile, Savona ottobre 2019.

Condizione postmoderna scuola - Sergio Dalmasso storico del movimento operaio italiano 30/05/2020

FRANCO DI GIORGI IN:
LA CONDIZIONE POSTMODERNA DELLA SCUOLA
E IL DESIDERIO DI “NORMALITÀ”
https://www.sergiodalmasso.com/30/05/2020/condizione-postmoderna-scuola/
Beato l’uomo che sopporta la tentazione [prova] (peirasmós), perché una volta superata la prova [egli, il dókimos, il provato, il saggiato, il messo alla prova] riceverà la corona della vita (stéphanon tes zoes) che il Signore ha promesso a quelli che lo amano (Gc 1, 12).

1. Nel 1979, ormai più di quarant’anni fa, nel suo famoso “Rapporto sul sapere” (meglio noto con il titolo La condition postmoderne) basato su studi di cibernetica e di telematica effettuati negli Stati Uniti e risalenti fino agli anni Trenta, Jean-François Lyotard, uno dei filosofi del pensiero postmoderno, aveva previsto e detto a chiare lettere che con l’introduzione del calcolatore elettronico, con il computer, il destino delle grands narrations sarebbe stato segnato.

Così come sarebbe stato compromesso parallelamente anche il destino dell’istruzione, dell’insegnamento e della trasmissione di queste metanarrazioni o del sapere in generale, con tutti i loro approcci e le loro metodologie. Si veda in particolare il capitolo 12 di questo saggio: “Insegnamento, legittimazione, performatività” (Feltrinelli 1981).

Dopo la delegittimazione posta in essere dalla “incredulità nei confronti delle metanarrazioni” (p. 6), cioè delle grandi ideologie politiche e filosofiche che legittimavano la modernità, il criterio ormai prevalente della performatività, ossia dell’ottimizzazione delle prestazioni resa possibile dall’informatizzazione delle società e del sapere, più che stimolare ideali di emancipazione mira a formare competenze funzionali al potere e quindi al sistema sociale che le sollecita per le sue riconfigurazioni.

Giacché, scrive Lyotard, “la questione nell’era dell’informatica è più che mai la questione del governo” (p. 20) o del potere, appunto. Uno degli esiti evidenti di una tale delegittimazione è ad esempio la riduzione della lotta di classe a “utopia”, a “speranza”, e l’impegno per l’insegnamento tradizionale a una specie di “protesta di principio” (p. 29).

Con l’annuncio della seppur “parziale sostituzione dei docenti con delle macchine”, la postmodernità in ogni caso anticipa e progetta la morte stessa dell’“era del professore” (p. 98).

Quasi a conferma di quanto aveva dedotto nelle pagine della Condizione postmoderna, lo stesso Lyotard nel 1984 pubblicherà un piccolo testo dal titolo significativamente provocatorio: Tombeau de l’intellectuel et autres papieres (Galilée, Paris).

Ora, dal punto di vista postmoderno, ben lungi dal creare un danno o una perdita, una tale sostituzione tecnologica comporterebbe piuttosto enormi vantaggi sia sul piano performativo o delle prestazioni sia sul piano economico, soprattutto per quegli Stati con un alto debito pubblico.

L’insegnamento basato sulla didattica relazionale poteva avere una sua specifica funzione didattico-pedagogica all’interno di quell’orizzonte umanistico che si può far risalire alla Grecia classica e ai Dialoghi di Platone, e che, con il suo progetto educativo e formativo, è riuscito a resistere alle intemperie del tempo e della storia, affermandosi lungo tutta la modernità.

Già però con la rivoluzione tipografica realizzata da Gutenberg nel 1445, cioè con l’invenzione della tipografia a caratteri mobili, all’interno dell’istituzione religiosa cattolica si era creato un profondo trauma, simile per certi aspetti a quello rilevato dal Fedro platonico a proposito dell’invenzione della scrittura, una profonda e dolorosa cesura, giacché in quella istituzione gli intellettuali erano riusciti a conquistarsi nei secoli una certa prerogativa nella trasmissione di un sapere religioso che, almeno fino al Seicento (ben oltre quindi la prima Rivoluzione scientifica), faceva tutt’uno con il sapere tout court (Machiavelli e Galileo docent).

Grazie poi a Lutero, che si avvantaggerà di quell’invenzione, e alla sua traduzione del testo sacro nella lingua tedesca, ogni singolo individuo poté leggere la Bibbia direttamente alla propria famiglia all’interno delle mura domestiche, senza dover andare necessariamente in chiesa, escludendo in tal modo l’intervento di quegli intellettuali ed evitando con ciò stesso anche le loro sottili e capziose interpretazioni.

Dopo circa mezzo secolo, un trauma simile è quello che la rivoluzione delle nuove tecnologie sta producendo all’interno di quell’ampio orizzonte umanistico.

Anche qui, ora, man mano che passa il tempo e con il continuo perfezionamento dei dispositivi tecnologici, i docenti si vedono scalzati nel loro antico appannaggio di comunicatori del sapere in una relazione diretta con i loro discenti (si veda a tal proposito il recente appello firmato da sedici intellettuali italiani contro la prospettiva di un “modello in remoto” e rivolto alla neo-ministra dell’istruzione Lucia Azzolina).

Secondo precise fasce orarie e a seconda dei più diversi interessi (da non chiamarsi più “discipline”), il collegamento programmato a una banca dati forniti dagli esperti delle varie materie o la connessione a un solo computer adeguatamente predisposto sarebbe in grado, volendo, di fornire in simultanea e in remoto un sapere manualistico o digitale a migliaia se non a milioni di utenti scuola.

La DaD, la Didattica a Distanza, resasi necessaria quest’anno a causa della pandemia di Covid 2019, è solo il passo intermedio dalla lectio ex cathedra alla lectio sine cathedra, ossia al libero approvvigionamento di un sapere non più obbligatorio secondo programmazioni preconfezionate, di un sapere “alla carta” (p. 91), dice Lyotard, e non più “costituito da uno stock organizzato di conoscenze” (p. 93).

Sebbene attraverso lo schermo di un computer e con l’ausilio di piattaforme comunicative, mediante una didattica domiciliare (da casa a casa, intramoenia si potrebbe dire mutuando un termine dal comparto “Sanità”) oggi gli insegnanti possono continuare a mantenere la loro cattedra, il loro posto di lavoro.

E sarebbe proprio il caso di ricordare a tal proposito che quello che oggi, con il solito anglicismo, viene chiamato smart working non sarebbe poi una gran novità, giacché era già una realtà ben consolidata in Inghilterra fin dal tempo della prima Rivoluzione industriale (cfr. Giovanna Lo Presti, Non lasciamo ai tecnocrati e politici ignoranti il governo della scuola, “Il Ponte”, 20 aprile 2020).

Sicché, almeno dal punto di vista storico, più che di un’emancipazione, specie se guardiamo al ruolo sociale delle donne, si tratterebbe anzi di una regressione.

Ma, come si accennava, il récit emancipatorio presuppone una pragmatica o un gioco linguistico eterogeneo rispetto al récit performativo: il primo, ricordava Lyotard, si fonda su criteri etico-teoretici come vero/falso, giusto/ingiusto, il secondo su criteri di mercato come utile/inutile, efficace/inefficace, vendibile/invendibile (p. 94).

Comunque sia, pur a fronte di una tale prospettiva certo non rosea per il destino dell’istruzione (sia pubblica che privata), la ministra ha persino annunciato l’assunzione di altri 32 mila insegnanti attraverso i concorsi, la sistemazione di 4.500 precari e di 4 mila nuovi ricercatori universitari.

Ma fino a che punto tutti costoro potranno continuare a mantenere pienamente le loro cattedre?

E in generale, fino a che punto potrà continuare questo servizio essenziale garantito dallo Stato e previsto (ancora) dall’articolo 33 della Costituzione, se il destino della scuola sembra essersi ormai avviato verso la sola didattica a distanza, se non addirittura verso la connessione ad un unico dispositivo base in remoto, verso un solo computer-madre senza la presenza dell’insegnante, a delle “banche di dati […] collegate a terminali intelligenti messi a disposizione degli studenti”, diceva Lyotard (p. 93)?

D’altro canto, una volta superato il difficile confronto con i paesi membri dell’Unione europea sulla scelta della formula con cui ottenere i fondi europei, i debiti che i governi hanno dovuto contrarre per fronteggiare l’emergenza lavoro a causa del Coronavirus dovranno comunque essere pagati.

A tal riguardo, poi, il problema più urgente non è tanto l’ammontare dei 55 miliardi di euro che il governo riuscirà a stanziare per l’emergenza Covid 19, ma come i cittadini possono ottenere questi stanziamenti, poiché tra le leggi predisposte e l’effettivo godimento dei finanziamenti si interpone la solita burocrazia italiana che con le sua nota farraginosità rischia di bloccare la ripresa di un intero Paese.

Per questo molti politici italiani, a partire dallo stesso premier Conte, oltre che di responsabilità e di certezze, parlano di semplificazione delle procedure, di modernizzazione della macchina burocratica, di velocizzazione della pubblica amministrazione, specialmente adesso che, diceva proprio il primo ministro durante la sua recente relazione in Senato, la salute non può più continuare ad essere un corollario, bensì la “precondizione dello sviluppo del Paese”.

E se questa volta a farne le spese, come è purtroppo accaduto in passato, non sarà più il comparto “Sanità”, logica vuole che, proprio in virtù dell’utilizzo di quelle tecnologie, siano altri comparti a pagarle: ad esempio quello dell’“Istruzione”, specie, come si è detto, in Stati come l’Italia che presentano un debito più elevato a causa di un precedente indebitamento.

Pertanto, sebbene l’annuncio di quelle nuove assunzioni non lo lascino ancora intravedere, la graduale dismissione degli insegnanti è quindi nelle cose: in un prossimo futuro, prima della scomparsa delle sedi fisiche della scuola (così sono scomparse anche le grandi fabbriche), prima della chiusura degli istituti scolastici (con tutti i vantaggi economici che ciò comporterà per le casse dello Stato), si cominceranno dapprima pian piano dolorosamente a tagliare gli stipendi agli insegnanti e subito dopo si procederà anche ai tagli alle cattedre.

Si preannuncia pertanto un esercito di ex-cathedratici, di migliaia di disoccupati nel personale della scuola, la perdita di altrettanti posti di lavoro e quindi l’estensione della povertà.

Questa, dunque, la “minaccia tecnocratica” che incomberebbe sulle nostre scuole, la quale, come s’è visto, porterebbe con sé anche un’ulteriore ondata di precarizzazione del lavoro in generale.

Ma se queste sono le temibili previsioni, allora quel “nuovo modo di concepire la scuola, ben diverso da quello tradizionale”, quel “complessivo e articolato processo di riforma” cui fa cenno il testo di quell’appello, come pure l’aspirazione a un “nuovo umanesimo”, non potranno che rivelarsi ancora una volta come il sogno di una bella cosa, come un’utopia, una speranza, un’idea.

Inoltre, secondo la prospettiva qui delineata, che inclina inesorabilmente all’estinzione della scuola, anche la dignitosa idea dell’insegnare meno, insegnare tutti risulta quanto meno anacronistica, in ritardo in ogni caso coi tempi, se non addirittura fuori tempo massimo: poteva valere ancora prima della crisi del 2008, ma da allora in poi, con l’emergenza della crisi economica, con il rischio default e con il fantasma Grexit che soffiava sul collo degli Italiani, non fu più possibile nemmeno parlarne, al punto che colui che tentava di farlo veniva visto come un ingenuo, un’anima bella, un irresponsabile, un disfattista.

Sulla scorta o con il pretesto di quella emergenza, l’ex premier Mario Monti, con la flemma e l’aplomb che lo contraddistinguevano, proprio per mettere una pietra tombale su quel principio egualitario avanzò addirittura la proposta di aumentare l’orario di lavoro settimanale degli insegnanti da 18 a 20 ore.

Il che sarebbe stata ancora una fortuna se pensiamo che l’allora ministro dell’Istruzione e dell’Università Francesco Profumo voleva aumentarle di 6 ore, cioè fino a 24.

2. Sulla scorta di quanto precede, non dovremmo affatto, quindi, augurarci di tornare alla “normalità”, e non solo per quanto riguarda la scuola, perché quella “normalità”, proprio in quanto “normalità”, conteneva in sé qualcosa di vischioso e di scivoloso a cui da troppo tempo siamo stati costretti ad abituarci: conteneva visibilmente quella tendenza avversa e innaturale che ha origini lontane ma che nel giro di pochi giorni (anche in questo modo e con questa rapidità si manifesta l’irreversibilità dei processi naturali di cui da molto tempo ci parlano gli scienziati) ha fatto riprecipitare l’intero pianeta sul bordo del baratro, preda questa volta del Coronavirus.

Ma chissà quale altro baratro ci riserva il futuro.

Tornare allo “stesso”, insomma, sarebbe una vera sconfitta per il genere umano in questa lotta impari contro un siffatto virus coronato, il quale è stato capace con una sola mossa di mettere in scacco l’intera umanità.

Eppure, in virtù di una sempre imprevedibile eterogeneità dei fini, intesa come corollario del principio della necessaria priorità del negativo, in virtù di una sorta di positivo contrappasso cosmico, proprio questo virus inghirlandato, con tutte le migliaia di morti che continua a mietere in tutto il mondo – morti a cui ben presto ci abituiamo e che altrettanto rapidamente dimentichiamo –, esso, nonostante la sua subdola letalità, è riuscito ad aprire nel nostro duro carapace una breccia.

Proprio attraverso questa incrinatura, durante il periodo di isolamento abbiamo avuto modo di vedere sotto una nuova luce non solo il mondo esteriore, ma anche il mondo interiore: li abbiamo visti entrambi diversi, più pacificati, più abitabili, più accoglienti; simili al cielo limpido e immensurabile di Austerliz che in Guerra e pace il principe Andrej Bolkonskij vede su di sé in attesa di una possibile morte, o ai sublimi Firmaments e ai Planets di James Brown.

Li abbiamo visti come in un sogno da cui, proprio ora che si è entrati nella fase 2, avremo voluto quasi non essere più risvegliati; li abbiamo visti cioè così come ce li immaginiamo segretamente dentro di noi e come, volgarizzandoli, nel mondo “normalizzato” ce li presentano i dépliant turistici o i testi catechistici. In entrambi i mondi abbiamo colto nuove sfumature, nuove sfaccettature, nuove possibilità che per varie ragioni siamo stati costretti ad accantonare per realizzarne delle altre; possibilità che, essendo rimaste allo stato latente, risultavano persino ignote a noi stessi quando meravigliati le abbiamo ritrovavate in quel vuoto, in quel silenzio e in quella solitudine, sia esteriori che interiori.

Uno dei momenti più intensi e pieni di sconcerto che un po’ tutti, cercando di sfuggire alla morte, abbiamo avuto modo di vivere durante la lunga segregazione forzata, è stato certamente assistere al volo degli uccelli sulla campagna o sulla città, perché con il loro verso ecoico marcavano la tanto incredibile quanto benefica assenza degli esseri umani in esse.

Era insomma come se dentro di noi quel virus avesse destato quelle possibilità dal lungo sonno imposto ad esse dalla modernità e poi anche dalla postmodernità, dalle società evolute e dalle loro leggi, dalle loro ragioni, dalle loro scelte, dalle loro tendenze.

Tendenze che hanno reso quelle possibilità, oggettive e soggettive, sociali e individuali, delle utopie, le quali, seppure come mere illusioni, come visioni intorpidite, riuscivano tuttavia a guidare il nostro incerto cammino dentro i sentieri sempre più asfittici delle società opulente e distopiche.

Prigioniere della loro agitata veglia, ostaggi della loro devastante insonnia, queste società, insomma, riuscivano finanche a utilizzare e a sfruttare utopisticamente quelle idee per realizzare la loro distopia.

Sicché, pur volendo in teoria realizzare in terra il più perfetto dei mondi possibili, una sorta di paradiso terrestre, esse in realtà mettevano mano al perfezionamento continuo dell’inferno, di quella specie di gheenna, di gorgo infuocato, potenzialmente in grado di risucchiare l’intera umanità in una sola volta.

Voler tornare alla “normalità” significherebbe allora riportare quelle possibilità umane, sia quelle sociali che quelle individuali, allo stato di latenza, equivarrebbe a richiudere quello squarcio, a spegnere quel baluginio, quella luce nuova che da esso riusciva a filtrare e che ci ha consentito di scoprire il volto sommerso, represso e dolorante del mondo esterno e di quello interno; tornare allo “stesso” vorrebbe dire insomma estinguere il sogno e con esso anche l’utopia di un mondo diverso, di un’umanità nuova.

Sicché, anche in questo momento di scelte radicali, a fronte di un generalizzato e incontenibile desiderio di tornare alla vita “normale”, ora che proprio quel “benedetto” virus stephanódes, cioè a forma di corona, era riuscito ad aprire quella breccia di luce salvifica dentro la ferita purulenta dell’umanità, proprio adesso valgono ancora e sempre nella storia umana le parole dell’apostolo: “la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie” (Gv 3, 19).

Ivrea, 30 maggio 2020

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