Centro di Consultazione e Psicoterapia Psicoanalitica - Sede di Lecce
La consultazione prevede tre incontri gratuiti.
▪ 𝑆𝑝𝑒𝑟𝑎𝑛𝑧𝑎 𝑒 𝑟𝑖𝑝𝑎𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 ▪
Questo. il titolo del nuovo fascicolo di 𝗣𝗦𝗜𝗖𝗢𝗧𝗘𝗥𝗔𝗣𝗜𝗔 𝗣𝗦𝗜𝗖𝗢𝗔𝗡𝗔𝗟𝗜𝗧𝗜𝗖𝗔, la rivista semestrale della 𝗦𝗜𝗣𝗣 (Società Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica) diretta da Adelina Maugeri.
𝗦𝗰𝗿𝗶𝘁𝘁𝗶 𝗱𝗶: Adelina Maugeri, Claudio Neri, Giuseppe Riefolo, Dott Anna Lisa Curti, Luigi Antonio Perrotta, Andrea Giovannoni, Maria N. Mosca, Amedeo Boros, Rossana Betti, Gabriele Geminiani, Sergio Zorzetto, Silvia Grasso, Anna Carla Aufiero, Giovanni Starace, Adriana Gagliardi, Rosita Lappi, Stefano Bolognini, Patrizia Gallo, Maria Grazia Minetti, Rosa Romano Toscani
Scopri l’ultimo fascicolo al seguente link 👉https://www.francoangeli.it/riviste/sommario/195/psicoterapia-psicoanalitica
Maurizio Balsamo Silvia Grasso Giovanni Starace Marta Vigorelli Luigi Rinaldi Ruby Mariela Mejia Maza Maria Lucchi Antonella Galeone Mathilde Elia Marina Montagnini Antonella Convertini
📌È POSSIBILE ANCORA ISCRIVERSI!
“𝐋’𝐞𝐜𝐜𝐞𝐬𝐬𝐨 𝐝𝐢 𝐬𝐞𝐧𝐬𝐨𝐫𝐢𝐚𝐥𝐢𝐭𝐚̀ 𝐧𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐩𝐬𝐢𝐜𝐨𝐬𝐢, 𝐧𝐞𝐥 𝐭𝐫𝐚𝐮𝐦𝐚 𝐞 𝐧𝐞𝐥 𝐛𝐨𝐫𝐝𝐞𝐫𝐥𝐢𝐧𝐞”
𝐈𝐧𝐜𝐨𝐧𝐭𝐫𝐨 𝐜𝐨𝐧 𝐀𝐧𝐭𝐨𝐧𝐞𝐥𝐥𝐨 𝐂𝐨𝐫𝐫𝐞𝐚𝐥𝐞
Mercoledì, 31 gennaio 2024 ore 19.00 – 21.00
In diretta su piattaforma Zoom - Evento Gratuito
Relatore
Antonello Correale
Medico Psichiatra, Psicoanalista, Membro Ordinario della Società Psicoanalitica Italiana (SPI, IPA)
Chairman
Guido Benzoni
Psicologo, psicoterapeuta psicoanalitico
Membro Associato (SIPP, EFPP)
Segretario scientifico sezione LPL
Discussant
Marta Vigorelli
Psicologa, psicoterapeuta psicoanalitica
Socio ordinario FT (SIPP, EFPP)
Docente Scuola di Specializzazione SIPP Milano
"La psicoanalisi ha compiuto centoventi anni. Per certi versi è molto cambiata, per altri conserva stretti legami con le sue origini. Qual è la sua eredità più preziosa?"
Link di iscrizione
https://us02web.zoom.us/meeting/register/tZUkdO2hpjsiGdPCblvqCRN6kI9JNvIRlxE9 #/registration
L’evento si svolgerà il 2 dicembre presso il Centro Congressi dell’Università La Sapienza: Via Salaria, 113 – Roma.
La partecipazione è gratuita, richiede l'iscrizione e sarà in modalità mista: in presenza e online su zoom.
Il convegno sarà un momento per ripercorrere la storia della Rivista della Società Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica; per dialogare con chi ha concorso alla sua fondazione e chi oggi concorre alla sua crescita all’interno dello scenario scientifico. Un’opportunità per riflettere sul complesso ruolo della scrittura nella pratica clinica psicoanalitica.
Per iscriversi:
https://us02web.zoom.us/meeting/register/tZcqfuiurTssEt2SN4XRmgc4nXNoNFCu_CYP
PSICOTERAPIA PSICOANALITICA
RIVISTA DELLA S.I.P.P. -SOCIETA ITALIANA DI PSICOTERAPIA PSICOANALITICA
TRENT’ANNI DI RICERCA CLINICO-TECNICO-TEORICA
2 dicembre 2023
L’evento si svolgerà il 2 dicembre presso il Centro Congressi dell’Università La Sapienza: Via Salaria, 113 – Roma. La partecipazione è gratuita, richiede l'iscrizione e sarà in modalità mista: in presenza e online su zoom.
Il convegno sarà un momento per ripercorrere la storia della Rivista della Società Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica; per dialogare con chi ha concorso alla sua fondazione e chi oggi concorre alla sua crescita all’interno dello scenario scientifico. Un’opportunità per riflettere sul complesso ruolo della scrittura nella pratica clinica psicoanalitica.
Link per iscrizione:
https://us02web.zoom.us/j/83791630689?pwd=eEwxaG5WaDBUY01QS1lRdkRrN1E3Zz09
Col nuovo anno si continua ad andare al cinema!
Riprendiamo la rassegna "LA MENTE AL CINEMA - Trasformazioni nella contemporaneità" e vi aspettiamo il 13 gennaio con la dottoressa Fabiola Mengoli per vedere e commentare il film "The father - Nulla è come sembra" di Florian Zeller, con Antony Hopkins e Olivia Colman.
L'iniziativa è realizzata nell’ambito di "Promuovere il cinema e i suoi luoghi", intervento di Apulia Film Commission e Regione Puglia - Dipartimento Turismo, Economia della Cultura e Valorizzazione del Territorio, finanziato con le risorse del Patto per la Puglia FSC 2014-2020.
Siamo lieti di invitarvi ad una nuova edizione di "LA MENTE AL CINEMA" dal titolo "Trasformazioni nella contemporaneità".
La rassegna esplorerà attraverso i vari film il tema multisfaccettato della trasformazione di sè e delle relazioni, nella cornice dell'altrettanto mutevole società contemporanea.
L'iniziativa è realizzata nell’ambito di "Promuovere il cinema e i suoi luoghi", intervento di Apulia Film Commission e Regione Puglia - Dipartimento Turismo, Economia della Cultura e Valorizzazione del Territorio, finanziato con le risorse del Patto per la Puglia FSC 2014-2020.
Vi aspettivamo!
Il destino di Sigmund Freud era di “agitare il sonno dell’umanità”.
E’ stato tra i più grandi rivoluzionari della storia, senza armi ma partendo dall’ascolto. Un gentiluomo che lottava “contro il demone” dell’irrazionalità “in modo composto”.
Se sei uno studente di Psicologia non perdere il ciclo di appuntamenti dedicati ai protagonisti della Psicoanalisi.
Il prossimo incontro è sabato 10 settembre sulla piattaforma zoom dalle 9:30 alle 11:30.
Insieme alla dottoressa Annalisa Curti approfondiremo la biografia del pioniere della psicoanalisi, esplorando alcuni aspetti del suo rivoluzionario percorso di psicoanalista.
Per informazioni clicca qui
https://sippnet.com/index.php/about-us-mobile/news-about/188-seminari-di-approfondimento-di-cultura-psicoanalitica
C'era una volta, in un freddo inverno, una regina che cuciva seduta vicino ad una finestra dalla cornice nero ebano. Mentre cuciva, distratta dalla neve che si accumulava sul davanzale, si punse un dito con l’ago e tre gocce di sangue caddero sulla neve e l’effetto del rosso sul bianco la colpì così tanto che pensò: “Ah, se solo avessi una bambina bianca come la neve, rossa come il sangue, e bruna come l'ebano di questa finestra!”. Poco tempo dopo, il suo desiderio si avverò e nacque una bambina bianca come la neve, rossa come il sangue e nera come l’ebano: la regina la chiamò Biancaneve.
La regina era la donna più bella di tutto il regno ma di questa beltà, che la rendeva fiera, non era certa e quindi, ogni mattina, chiedeva conferma al suo amato specchio parlante:
"Specchio, specchio delle mie brame, chi è la donna più bella del reame?"
E lo specchio rispondeva ogni giorno: "Tu, mia regina, sei la più bella."
Finché una mattina - Biancaneve aveva appena compiuto i sette anni - interrogato dalla regina lo specchio rispose: “Grande è la tua beltà, oh mia regina, ma ormai, la piccola Biancaneve lo è mille volte di più."
All’udire quelle parole, la regina divenne bianca e verde dall'invidia e dalla rabbia e comincio a ordire trame di vendetta verso la figlia.
Qualche giorno dopo, convocò un cacciatore e gli ordinò di prendere Biancaneve, di portarla nel bosco ed ucciderla. Pretese, a testimonianza della morte, i polmoni e il fegato, con l’intento di cuocerli e mangiarli.
Il cacciatore ubbidì alla regina, portò Biancaneve nella foresta ma quando venne il momento di ucciderla Biancaneve lo intenerì, lo supplicò di risparmiarla e gli promise di scappare nel bosco e di non fare più ritorno. Il cacciatore si convinse, lasciò andare Biancaneve e portò alla regina i polmoni e il fegato di un cinghialetto che ella mangiò con gusto.
Nel frattempo Biancaneve si inoltrò nel bosco e camminò, camminò e alla fine arrivò a una casetta piccola, ordinata , pulita ma deserta. Era la casa dei sette nani. Una volta tornati i nanetti, Biancaneve raccontò loro che era dovuta scappare perché la madre la voleva uccidere e chiese loro ospitalità in cambio di un aiuto per la casa.
E fu così che Biancaneve venne accolta nella casa dei nani.
Ma la regina non aveva perso l’abitudine ad interrogare lo specchio e fu così che scoprì che Biancaneve era ancora viva e che abitava nella foresta con i nani.
La regina sempre più rabbiosa, si travestì da vecchia ambulante e andò a casa dei sette nani. Propose a Biancaneve di cingerle la vita con un nastro avvelenato che la fece cadere a terra morta. Quando i nani tornarono a casa tagliarono il nastro in due e Biancaneve tornò a respirare.
Appena lo seppe la regina si ripresentò da Biancaneve con un pettine avvelenato e appena lo ebbe infilato tra i capelli di Biancaneve, la fanciulla cadde a terra morta. I nani tornarono a casa poco dopo tolsero il pettine avvelenato dai capelli di Biancaneve, che rinvenne.
Quando la regina sentì che Biancaneve nuovamente si era salvata, pazza di rabbia iniettò in una mela un veleno estremamente potente; si travestì da contadina e si recò a casa dei sette nani. Biancaneve si fece ingannare ancora una volta dalla regina, diede un morso alla mela e subito cadde a terra, morta. I nani, visto che ogni tentativo di risvegliare Biancaneve era risultato vano, costruirono una bara di cristallo e la depositarono all'interno, così che dall'esterno potessero vederla.
Un giorno passò per la casa dei nani un principe e quando vide Biancaneve che giaceva nel feretro di cristallo, rimase incantato dalla sua bellezza. Chiese ai nani di vendergli la bara con il corpo di Biancaneve, ma essi non vollero per tutto l'oro del mondo. Allora lui la chiese in dono. Alla fine i nani impietositi di lui la lasciarono portare via.
Il principe la fece portare al suo castello e se la fece trasportare dai servi in ogni luogo dove si recava. Un giorno accadde che i servi, che dovevano continuamente portare la bara avanti e indietro, cominciarono a stancarsi per la situazione, e, alla fine, uno di loro scoperchiò la cassa e scuotè Biancaneve così forte che alla ragazza cadde dalla bocca il pezzo di mela avvelenata e tornò in vita.
Quando il principe lo seppe grandi nozze furono organizzate. La madre cattiva di Biancaneve, la regina, fu invitata e quando si presentò fu costretta ad indossare delle scarpe incandescenti con le quali dovette ballare fino alla morte.
Questa prima stesura, un po’ cruda di Biancaneve - a firma dei fratelli Grimm, pubblicata nel 1812 - ispirata da “Lu cunto de li cunti” di Gianbattista Basile e da vicende reali del passato - non ebbe alla sua uscita grande successo.
I temi difficili presentati, come il cannibalismo, la necrofilia, la crudeltà della madre verso la figlia, disturbavano il pubblico, che a quei tempi era composto sia da adulti che da bambini, inibendo la potenzialità della fiaba di creare identificazioni e proiezioni.
La fiaba deve rappresentare uno spazio potenziale rassicurante dove la realtà e la fantasia si incontrano e dove la prima può esprimersi libera, entro i limiti di un contenimento riflessivo. Inseguendo le vicende dei personaggi, le loro sconfitte e le loro vittorie si rendono narrabili le proprie emozioni anche quelle più sfuggenti.
Per consentire all’ascoltatore di avvicinare il proprio lato oscuro attraverso le fiabe bisogna dislocare i temi crudeli e la sofferenza in un altrove distante, nel tempo (c’era una volta), nello spazio (in un luogo lontano) attraverso personaggi un po’ irreali (la strega, l’orco, il lupo, la matrigna un po’ strega).
I personaggi delle fiabe si distribuiscono all’interno di categorie dicotomiche ben definite: sono buoni o cattivi, belli o brutti, positivi o negativi. Queste distinzioni dicotomiche permettono un’identificazione con le qualità positive del protagonista idealizzato ma allo stesso tempo un confronto con un’altra parte, quella cattiva, che può nascondersi dentro un genitore ma anche dentro sé stessi.
Sulla scia dei tempi che cambiavano e delle maggiori esigenze di attenzione e tutela dell’infanzia, negli anni successivi i fratelli Grimm apportarono diverse modifiche fino ad arrivare alla versione di Biancaneve, che tutti noi conosciamo.
Ad una versione quindi della fiaba che consente di avvicinarsi con animo più sereno all’esperienza di una matrigna, Grimilde, e di una figliastra, Biancaneve, intrisa di temi quali la rivalità, l’avidità, la gelosia, l’invidia, la separazione.
Da un lato abbiamo Biancaneve, che rimanda a tutti i temi della bontà, della docilità, dell’ubbidienza, della gratitudine. Una fanciulla che deve intraprendere il cammino evolutivo verso la necessaria separazione dal legame materno, che la conduca ad una matura acquisizione dell’identità, della propria sessualità e all’apertura all’altro maschile non più solo rappresentato dal padre.
Dall’altro Grimilde, la matrigna, che non riesce ad incarnare una madre sostituiva buona, colei che protegge e non imprigiona, che promuove lo sviluppo del bambino e lo spinge a diventare adulto. É colei che prova invece verso la fanciulla sentimenti di ostilità, avidità e invidia.
Di per se l’invidia è una manifestazione dell’aggressività primaria, presente fin dalla nascita nell’essere umano. Se l’avidità mira ad ottenere il possesso di tutto ciò che è portatore di un valore nell’oggetto, indipendentemente dai propri bisogni (e agisce attraverso il meccanismo dell’introezione), l’invidia si propone, invece, la distruzione della bontà dell’oggetto (e si esprime attraverso il meccanismo l’identificazione proiettiva).
L’invidia, che può in taluni casi culminare nella cattiveria e nella vendetta, si basa sulla percezione di una differenza o di una mancanza: qualcuno possiede qualcosa che altri potrebbero avere ma non hanno, come la bellezza eterna, la giovinezza di Biancaneve e le attenzioni dello specchio parlante.
Il tema dello specchio rimanda all’esigenza umana di essere guardati e riconosciuti, non per esclusiva vanità ma per il fatto che attraverso lo sguardo dell’Altro acquisiamo il sentimento della nostra stessa esistenza attraverso. Grimilde ha bisogno della convalida del suo specchio per costituirsi nel suo insieme, è incompleta senza lo sguardo e la conferma affermativa del suo specchio magico.
E quando Biancaneve le ruba l'attenzione dello specchio, l'immagine della matrigna sembra andare in frantumi. Questa frammentazione si costituisce come una minaccia per la sua esistenza, poiché l'immagine allo specchio è davvero lei, non riesce a distinguere il suo vero sé dal semplice riflesso.
Ma anche al giorno d’oggi alcune persone, come Grimilde, possono rimanere intrappolate per tutta la vita in questo gioco di costante convalida dello sguardo dell’altro portandolo avanti con l’ausilio dei molti specchi a disposizione: cellulare, tablet, ecc.
Grimilde non si riesce ad esprimere come una madre “sufficientemente buona" in grado di guardare sua figlia con uno sguardo di riconoscimento e amore. Non distingue la sua singolarità da quella di Biancaneve, accettandola come tale. Per poterlo fare dovrebbe rinunciare al proprio narcisismo, al proprio specchio e quindi a sé stessa.
Tuttavia il lettore, adulto e bambino, attraverso la figura di Grimilde può incontrare dentro di sé quella madre che non soddisfa i suoi desideri, che non gli appartiene interamente e che, per questo, diventa cattiva. Inoltre permette al bambino, ma anche quella parte infantile della personalità adulta che ancora vive nel rimpianto di una fantasia fusione, di considerare la separazione non più come una lacerante perdita, segnata dal timore del ritrovarsi soli e non amati; ma come un vissuto naturale, inevitabile del percorso di crescita.
“Lu Cunto de li conti” Giovanbattista Basile;
“Le fiabe del focolare” Jacob e Wilhlem Grimm.
Seminari di approfondimento della Cultura Psicoanalitica
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“𝐿𝑒 𝑠𝑡𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑒 𝑙𝑎 𝑙𝑢𝑛𝑎 𝑠𝑐𝑜𝑟𝑟𝑜𝑛𝑜 𝑠𝑖𝑙𝑒𝑛𝑧𝑖𝑜𝑠𝑒…𝑖𝑛 𝑢𝑛 𝑛𝑒𝑠𝑠𝑢𝑛 𝑝𝑜𝑠𝑡𝑜 𝑠𝑖 𝑑𝑜𝑟𝑚𝑒 𝑏𝑒𝑛𝑒 𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑛𝑒𝑙𝑙’𝑒𝑠𝑒𝑟𝑐𝑖𝑡𝑜. 𝑆𝑜𝑙𝑜 𝑎𝑑 𝐴𝑔𝑖𝑙𝑢𝑙𝑓𝑜 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡𝑜 𝑠𝑜𝑙𝑙𝑖𝑒𝑣𝑜 𝑛𝑜𝑛 𝑒𝑟𝑎 𝑑𝑎𝑡𝑜”.
𝐓𝐑𝐀 𝐈𝐍𝐂𝐎𝐌𝐏𝐋𝐄𝐓𝐄𝐙𝐙𝐀, 𝐑𝐈𝐓𝐈𝐑𝐎 𝐄 𝐀𝐒𝐒𝐄𝐍𝐙𝐀
𝐋𝐀 𝐓𝐑𝐈𝐋𝐎𝐆𝐈𝐀 𝐃𝐈 𝐈𝐓𝐀𝐋𝐎 𝐂𝐀𝐋𝐕𝐈𝐍𝐎
(C’è chi vive sugli alberi, autodeterminandosi, chi all’interno di un’armatura… vuota che stranamente parla, ragiona e soffre e chi nell’incompletezza delle parti ritrova la sua interezza o forse il contrario, di fronte all’apparente interezza cela emozioni e sentimenti contradditori e parziali.)
Presso l’editore Einaudi di Torino nel novembre del 1959 fa la sua comparsa” Il Cavaliere inesistente, ambientato storicamente tra i paladini di Carlomagno in quel certo Medioevo avulso da qualsivoglia verosimiglianza storica e geografica, capace quindi di tratteggiare un’epica dimensione narrante di carattere cavalleresco e fiabesco. La metafora narrativa si esplicita nella personificazione di Agilulfo, protagonista assente per consistenza fisica ma presente dentro un’armatura che protegge, perché tra-veste il corpo di perfezione luccicante esteriore. Ciò lo cautela nell’essenza della propria identità soggettiva e nella manifestazione di una volontà che pensa, concettualizza e patisce la sua urgenza esistenziale di controllo. Tanto controllo che l’agognato ristoro di un meritato sonno gli viene negato, almeno dalla penna che gli dà vita, inserendolo all’insegna di un funzionamento alienante a se stesso e al mondo che lo circonda Si legge tra le righe della narrazione: «…le stelle e la luna scorrono silenziose su due campi avversi. In nessun posto si dorme bene come nell’esercito. Solo ad Agilulfo questo sollievo non era dato. Nell’armatura bianca, imbardata di tutto punto, sotto la sua tenda, una delle più ordinate e confortevoli del campo cristiano, provava a tenersi supino, e continuava a pensare: non i pensieri oziosi e divaganti di chi sta per prender sonno, ma sempre ragionamenti determinati e esatti…sentiva il bisogno d’applicarsi a una qualsiasi occupazione manuale, come il lucidare la spada…o l’ungere di grasso i giunti dell’armatura…dalle tende si levava il concerto dei pesanti respiri degli addormentati …e la sua invidia per la facoltà di dormire propria delle persone esistenti era un’invidia vaga, come di un qualcosa che non si sa nemmeno concepire» (cap. II). E come potersi rappresentare qualcosa di cui non si è fatta esperienza se non attraverso una forsennata e tumultuosa attività ideativa? Chissà, forse una difesa di un dolore del proprio mondo sentimentale, estremizzata tra azione, intellettualizzazione e volontà disperata? Una volontà caparbia e volitiva capace di sostenere, forse, anche quel certo vuoto di un mondo interno attrezzato a difendersi dentro un’armatura inespugnabile e perfetta? Ma queste sono soltanto alcune delle possibili interpretazioni che nascono dalla lettura della storia, proprio perché storia e narrazione si affiancano ad altri compagni di viaggio. Uno di loro, contrapposizione in essere senza contezza di esserci, è lo scudiero Gurdulù. La figura di Gurdulù potrebbe essere letta come quella parte di immediatezza di vita e sensazioni ancora indistinte tra loro, una creatura che si confonde con le proprie sensazioni all’interno di un prolungamento di se stesso con ciò che sente, vede e tocca. Il matto della storia o è l’origine da cui tutti noi veniamo? L’indistinto senza cui non sarebbe possibile alcuna significazione alla vita se un qualcuno all’inizio non si confondesse con noi, per poi permetterci di proseguire verso il cammino della propria identità soggettiva nella separazione tra noi e l’Altro? Forse un po’ tutti matti all’inizio della vita, un po’ come l’in- cosciente Gurdulù che «…matto forse non lo si può dire: è soltanto uno che c’è ma non sa d’esserci…o bella! Questo suddito qui che c’è ma non sa d’esserci e quel mio paladino là che sa d’esserci e invece non c’è» (cap. III). E se si confonde e stupisce Carlomagno, che di vicende deve averne viste e vissute, chissà quale meraviglia e timore queste creature matte potrebbero suscitare per luoghi comuni del comune pensare nella quotidianità del vivere della gente perbene? Tutti possibili spunti di riflessione e d’indagine sulla difficoltà di separazione tra la costruzione della propria identità e l’altrui incomprensione. Affiancano e sostengono la storia diversi altri personaggi caratterizzanti. Rambaldo di Rossiglione che animato dalla sua bramosia di vendetta a favore del suo defunto padre si s-paura di fronte alla grammatica di costruzioni di ordini e ritualità del battaglione, tanto che a un tratto scorgendo Agilulfo «…a contare …qualsiasi cosa avesse davanti…comprendeva che tutto andava avanti a rituali, a convenzioni…e oppresso dal turbamento…si gettò a terra e scoppiò a piangere». (Cap. II). Così dalla bramosia di vendetta alla bramosia d’amore per la fiera Bradamante, cavaliere donna in un mondo di uomini, che innamorata dall’insonne Agilulfo si arrenderà alla fine all’amore di Rambaldo, carne e ossa e poco corazza. Il cupo Torrismondo che da impetuoso cavaliere arriverà all’amore attraversando il dubbio di chi avesse amato inizialmente: la madre o la sorellastra che lo aveva cresciuto nelle brughiere? In realtà nessun legame di parentela li legava se non quello dell’amore, perché l’una figlia del re di Scozia e l’altro della regina e del Sacro Ordine, così da poter tranquillizzare Agilulfo in merito al legame familiare, mentre il Cavaliere inesistente ritornerà a esistere piuttosto che dissolversi per sempre, lasciando a un attonito Rambaldo l’armatura che lo conteneva o che forse lo imprigionava. Dove avrà proseguito il suo viaggio? Non è dato sapere. Persino il bizzarro Gurdulù lo cercherà invano «tra una pentola vuota, un comignolo o una tinozza…cerco il mio padrone…il mio padrone è uno che non c’è; quindi può non esserci tanto in un fiasco quanto in un’armatura». E Torrismondo, che si unirà in matrimonio con Sofronia, gli farà notare che Agilulfo si è dissolto nell’aria e correttamente, all’insegna di un tutto dentro cui confondersi, risponderà: «allora, io sono lo scudiero dell’aria?»
Quale migliore metafora satirica e veritiera di un guerriero invisibile e prigioniero di un’armatura, fin quando non sceglierà di svestirsene per dissolversi chissà dove? Allegoria anche della condizione esistenziale che attraversa ciascun racconto, costituita da solitudine di tante donne e uomini, costretta da gabbie di pregiudizio piuttosto che da un perbenismo pensante che incarcera mente e cuore al contempo? Ed ecco un’ulteriore possibile interpretazione, una fra le ipotizzabili fantasie. Chissà Agilulfo, invece, dove avrà scelto di proseguire: dissolto in un Nulla esistenziale o radicato, finalmente, nella sua essenza più profonda, libero in conclusione da qualsivoglia corazza?
E così tra incompletezza, ritiro e assenza, ognuno nella sua storia avrà qualcosa da raccontare su cui riflettere e anche ridere delle surreali avventure di cui è stato protagonista: da narratore, scudiero, innamorato, o forse semplicemente un ragazzo che racconta così del suo mondo interno: «…un ago di pino poteva rappresentare un cavaliere, o una dama, o un buffone; io lo facevo muovere dinanzi ai miei occhi e m’esaltavo in racconti interminabili. Poi mi prendeva la vergogna di queste fantasticherie e scappavo» ( Cap. X). E forse lo stesso Calvino è stato quel ragazzo che immaginando mondi favolistici ci ha permesso di fantasticare, regalandoci storie leggere e divertenti quanto intessute di metafore e allegorie da ri-cercare per assonanza come nel lavoro analitico; dal vertice dell’ascolto, infatti, ci si muove tra ipotesi e interpretazioni nel divenire della storia del paziente. Nella lettura dei racconti, immaginata come una possibile narrazione soggettiva all’interno del setting analitico, alcuni significati sono emersi, altri ancora da trovare e poi perché proprio quelli, piuttosto che altri soltanto intravisti? Ma questo, inevitabilmente, darebbe il via a un’altra storia e la voce narrante potrebbe aggiungere: «…storie vere o inventate? Stia attenta con le inventate. Rivelano cosa c’è sotto: Tal quale come i sogni. E le vere, anche quelle rivelano cosa c’è sotto…se la raccontassi vorrebbe dire che m’interessa. E se una storia m’interessa, è come se fosse la mia storia» (I fiori blu di Raymond Queneau – Traduzione di Italo Calvino- Einaudi, 2005, Torino).
Elena Leverone
“ 𝐿𝑢𝑖 𝑐𝑜𝑛𝑜𝑏𝑏𝑒 𝑙𝑒𝑖 𝑒 𝑠𝑒 𝑠𝑡𝑒𝑠𝑠𝑜, 𝑝𝑒𝑟𝑐ℎ𝑒́ 𝑖𝑛 𝑣𝑒𝑟𝑖𝑡𝑎̀ 𝑛𝑜𝑛 𝑠’𝑒𝑟𝑎 𝑚𝑎𝑖 𝑠𝑎𝑝𝑢𝑡𝑜. 𝐸 𝑙𝑒𝑖 𝑐𝑜𝑛𝑜𝑏𝑏𝑒 𝑙𝑒𝑖 𝑒 𝑠𝑒 𝑠𝑡𝑒𝑠𝑠𝑎, 𝑝𝑒𝑟𝑐ℎ𝑒́ 𝑝𝑢𝑟 𝑒𝑠𝑠𝑒𝑛𝑑𝑜𝑠𝑖 𝑠𝑎𝑝𝑢𝑡𝑎, 𝑚𝑎𝑖 𝑠’𝑒𝑟𝑎 𝑝𝑜𝑡𝑢𝑡𝑎 𝑟𝑖𝑐𝑜𝑛𝑜𝑠𝑐𝑒𝑟𝑒 𝑐𝑜𝑠𝑖̀”
𝐓𝐑𝐀 𝐈𝐍𝐂𝐎𝐌𝐏𝐋𝐄𝐓𝐄𝐙𝐙𝐀, 𝐑𝐈𝐓𝐈𝐑𝐎 𝐄 𝐀𝐒𝐒𝐄𝐍𝐙𝐀
𝐋𝐀 𝐓𝐑𝐈𝐋𝐎𝐆𝐈𝐀 𝐃𝐈 𝐈𝐓𝐀𝐋𝐎 𝐂𝐀𝐋𝐕𝐈𝐍𝐎
(C’è chi vive sugli alberi, autodeterminandosi, chi all’interno di un’armatura… vuota che stranamente parla, ragiona e soffre e chi nell’incompletezza delle parti ritrova la sua interezza o forse il contrario, di fronte all’apparente interezza cela emozioni e sentimenti contradditori e parziali.)
Risalente al 1957 “Il Barone rampante” è la seconda storia della trilogia. Nel 1965 Calvino
curò un’edizione per le scuole medie e del suo nome e cognome ne produsse un anagramma in
Tonio Cavilla. La Prefazione della stessa riportava la seguente nota: “Tra sé e il proprio libro
Italo Calvino ha voluto introdurre il personaggio di un meticoloso docente e pedagogista,
Tonio Cavilla, il quale ha commentato e analizzato il testo col distacco critico e la serietà che
all’autore parevano necessari”. Il racconto, attraverso la voce narrante di Biagio, descrive la
storia quasi inverosimile e bizzarra di suo fratello maggiore, il Barone Cosimo Piovasco di
Rondò che, all’età di dodici anni, per sfuggire alle angherie tra potere e rigore imposto dai ruoli
familiari e la vessazione prodotta dall’ordine ad ingurgitare un succulento piatto di lumache
cucinato dalla sorella Battista, fantasiosa e frustrata cuoca di leccornìe disgustose, prende la via
della libertà. Rimarrà fedele per tutta la vita alla sua scelta estrema: vivere sugli alberi,
osservando e vivendo comunque tutto in bilico, come un trapezista sospeso nel vuoto.
Autodeterminazione nella scelta estrema intaccabile nel suo nucleo, tra isolamento e distanza,
che condurrà il temerario barone, adolescente vessato da un ordine imposto, a una vita tutt’altro
che ascetica. Entrambe le posizioni tratteggiano alcuni possibili vertici di analisi e
interpretazioni della divertente e malinconica storia di Cosimo Piovasco di Rondò. Umorismo,
fantasia e avventura, il tutto in un rocambolesco ed anche pericoloso gioco di equilibri precari,
così da tenersi saldi per non cadere da rami fragili sospesi e circondati dal vuoto. Quel che
Nietzsche definiva il pathos della distanza ne Il Barone rampante, si potrebbe interpretare come
la doppia sfaccettatura tra l’inevitabile solitudine esistenziale, che anche qui si ritrova come nel
Visconte dimezzato, e il senso di appartenenza necessario all’uomo in quanto parte di una comunità istituita, familiare, sociale ma soprattutto e primariamente relazionale e affettiva,
presupposti necessari per avvertirsi in relazione nel mondo e col proprio mondo di riferimento.
All’interno di questa dialettica distanza - vicinanza si ritrova l’essenza del personaggio:
l’inalterabilità della scelta assunta. Si legge a tal riguardo: «… Cosimo salì fino alla forcella
d’un grosso ramo dove poteva stare comodo, e si sedette lì, a gambe penzoloni, a braccia
incrociate con le mani sotto le ascelle, la testa insaccata nelle spalle, il tricorno calcato sulla
fronte. Nostro padre, si sporse dal davanzale- Quando sarai stanco di star lì cambierai idea! - gli
gridò. –Non cambierò mai idea, - fece mio fratello, dal ramo. –Ti farò vedere io, appena scendi!
– E io non scenderò mai più! - E mantenne la parola» (Cap. I). Parrebbe troppo semplicistico e
per alcuni versi anche banale riconoscerne all’apparenza soltanto un esuberante atto di
disobbedienza, ma forse dietro alla scontatezza dell’azione, la disobbedienza appunto, si
potrebbe celare l’esemplificazione di una scelta estrema a discapito di una vita cosiddetta
normale. Cosimo, così, sacrifica parti di sé desiderose di vivere e amare, ma soprattutto
sensibili e capaci di concederselo, se non fossero state mortificate e irretite dentro falsi
educativi precostituiti e sordi alla soggettività identitaria che alimenta e nutre la crescita di un
giovane ragazzo E allora piuttosto che il nulla affettivo meglio una mirabolante vita
funambolesca, tra cuore e mente, mai definitivamente disgiunti, ma impossibilitati per le
ragioni proprie e altrui, a ritrovarsi e allearsi . Ma perché mai poi entrare in alleanza con i
propri persecutori!? Meglio sugli alberi, posizione sì di distanza ma anche, per alcuni aspetti,
favorevole ad una certa prospettiva di superiorità: l’obbligatorietà di farsi guardare da un
vertice asimmetrico, almeno per i comuni mortali, dal basso verso l’alto. Cosimo vive in bilico
e in movimento ma anche, paradossalmente, lungo una costante scelta intaccabile: la vita sugli alberi. Superate le iniziali impervie e problematiche condizioni di vivibilità per giungere ad un
adattamento necessario all’ambiente eletto a mondo possibile, dal 15 giugno 1767 fino alla morte, appeso all’ancora di una mongolfiera che approderà senza di lui, la vita del Barone
Cosimo Piovasco di Rondò sarà autodeterminata solo da se stesso. Organizzerà, sorveglierà e
condurrà un’inevitabile autarchia esistenziale, dove il processo trasformativo del confronto
educativo irrinunciabile, pur nella sua scomodità di posizioni asimmetriche (genitori- figli,
fratelli subordinati alle angherie di una sorella maggiore), lo esilierà da qualsiasi esperienza
educativa, intendendo per educazione il necessario confronto con l’Altro, e non certamente
pedissequi e noiosi precetti moralistici. L’amore per Viola lo farà volare sentimentalmente, fra
emozioni contrastanti ancora più in alto, ma per alcuni aspetti ricondurrebbe a una
trasposizione di un femminile-maschile e viceversa, dove ad ogni passaggio di ramo «..si
conobbero. Lui conobbe lei e se stesso, perché in verità non s’era mai saputo. E lei conobbe lui
e se stessa, perché pur essendosi saputa sempre, mai s’era potuta riconoscere così» (cap. XXI).
Poi, tra i tanti avventurosi accadimenti della sua unica esistenza, la smisurata passione per la letteratura e per lo studio, che gli restò poi per tutta la vita. (Cap. XIII). La voce narrante di
Biagio riporta la necessità del fratello di ritrovarsi con l’Abate, a debita distanza, per dissipare
dubbi e curiosità, sommergendo di domande l’anziano precettore. E anche da discente, forte e
caparbio, tende, nell’inversione dei ruoli, (forse per arrendevolezza e accondiscendenza dello
stesso personaggio Fauchelafleur!?) a incrementare con determinazione la sua formazione
culturale, nonostante l’allontanamento dall’Abate. Questi, accusato di tenersi al corrente di
letture scomode dal Tribunale ecclesiastico, sarà relegato ingiustamente in carcere. Rimasto
solo, Cosimo di Rondò non si arrese, intraprendendo un’impegnativa corrispondenza epistolare
con i maggiori filosofi e scienziati d’Europa, ricoverando in biblioteche pensili tomi
dell’Enciclopedia di Diderot e D’Alambert. Egli desiderava sperimentarsi comunque nel
mondo, da lontano, quasi che una vicinanza prossima all’Altro potesse danneggiarlo. E proprio
in questo suo evidenziarsi più vicino agli uomini da sopra gli alberi, di quanto non fosse
riuscito da terra, resta il fatto, già prima accennato, che gli uomini saranno obbligati a rivolgere
lo sguardo verso l’alto. Superiorità esibita? Sembrerebbe, ma credo che dentro a questa
metafora si possa anche intravedere l’idea di trascendenza, che non si connota di religione,
bensì del sentimento di religiosità e della necessità esistenziale dell’uomo di guardare in alto e
oltre il proprio pregiudizio, per ritrovare un’immagine più autentica di se stesso. Un’immagine
meno appesantita dalla complessità della vita, una quota fra le diverse parti indubitabilmente
appresa da codici relazionali educativi e sociali, ma che sperabilmente tenda verso
quell’insostenibile leggerezza dell’essere, così desiderata ma altrettanto difficile da sostenere. E
allora perché non rifugiarsi su… tra gli alberi?!
Elena Leverone
(Seguirà “Il Cavaliere inesistente” nelle prossime letture di “Curiosando tra le righe”).
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