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Quando si parla di Salute, Benessere, Successo. Sono prodotti che parlano e meritano di essere ascoltati. Siamo i loro cantastorie.
Prodotti con una storia
Nei nostri prodotti si intrecciano più storie: quelle della loro terra di origine, quelle delle mani di chi le produce e quelle delle tavole di chi li consuma. Vanno capiti a fondo per essere apprezzati a pieno e noi siamo qui per raccontarli. Tutto sempre nel rispetto di quella terra, la nostra, di quelle mani, di quelle tavole. Per assicurarci che le storie dei nostri pr
Tienimi per mano al tramonto,
quando la luce del giorno si spegne
e l’oscurità fa scivolare il suo drappo di stelle…
Tienila stretta quando non riesco
a viverlo questo mondo imperfetto…
Tienimi per mano…
portami dove il tempo non esiste…
Tienila stretta nel difficile vivere.
Tienimi per mano…
nei giorni in cui mi sento disorientato…
cantami la canzone delle stelle
dolce cantilena di voci respirate…
Tienimi la mano,
e stringila forte prima che l’insolente
fato possa portarmi via da te…
Tienimi per mano e non lasciarmi andare…
mai…
🇦🇨 Hold my hand at sunset, when the light turns off and the dark slides his cloth of stars…
Hold her close when I can’t live this imperfect world…
Hold my hand… take me where time does not exist… Hold her tight in hard to live.
Hold my hand… on days when I feel confused… sing the song of the stars sweet chant of voices breathe…
Hold my hand, and clap her strong before the insolent fate may take me away from you…
Hold my hand and never let me go… ever…
👫
Hermann Hesse
Ogni giorno è diverso dall’altro, ogni alba porta con sé il suo speciale miracolo, il suo istante magico, in cui si distruggono gli universi passati e nascono nuove stelle.
I Navajo, infatti, insegnano ai loro bambini che ogni mattina il sole che sorge è un sole nuovo.
Nasce ogni giorno, vive solo per quel giorno, muore alla sera e non ritornerà più.
Dicono ai loro piccoli: Il sole ha solo questo giorno, un giorno.
Vivi bene la tua vita in modo che il sole non abbia sprecato il suo tempo prezioso.
(Paulo Coelho)
Palermo 1873 Corso Vittorio Emanuele.
Nella Pasticceria del cav. Salvatore Gulì fervono i preparativi per l’Esposizione Universale di Vienna.
Si parte dalla cassata al forno, si sostituisce la pasta frolla ricoprendo il dolce di una lucida glassa e di una piaggia di “zuccata” (pezzetti di frutta immersi in uno sciroppo di zucchero).
Nasce la cassata siciliana come la conosciamo oggi.
Un trionfo di pan di Spagna, crema di ricotta, vaniglia e pasta reale, glassa di zucchero, cedro e cannella, frutta candita, zuccata e capello d’angelo, marmo mischio di tarsie geometriche, arabeschi floreali, trionfale visione del mondo.
Fu subito un grande successo.
È l’epoca d’oro dei Florio. Palermo è una delle capitali d’Europa, città del Liberty e dei Basile, meta obbligata dei giovani dell’aristocrazia del vecchio continente (Grand Tour).
I Florio la regalano alle teste coronate di tutta Europa, ai magnati e ai giornalisti del Nuovo Mondo.
Ben imballata in scatole di latta decorate, oggi oggetto di collezionismo, porta lontano il profumo della nostra Sicilia.
Nonostante il successo la cassata rimane un dolce riservato ai nobili ed all’alta borghesia, per i siciliani dell’epoca è solo il dolce di Pasqua. Solamente con il boom economico degli anni ’60 la cassata diventa il dolce della domenica.
Lo storico Gaetano Basile sulla cassata: Una sinfonia di sapori, un’opera d’arte effimera creata per nutrire il corpo, ma anche lo spirito. Un pezzo di Sicilia offerto agli occhi e all’anima, come immagine di voluttà. Una perenne metafora della carnalità e del godimento, un’estasi estraniata da un paradiso terrestre incerto tra l’Olimpo e il Genoardo, l’Empireo e il Teatro del mondo.
Furono i Greci i primi a preparare un dolce di cacio (ricotta?) addolcito con il miele.
In epoca romana Petronio racconta di un dolce confezionato con la pasta del pane, ricotta e miele. Il nome “caseatus” è del tardo latino.
La forma tonda come il disco solare, fecondatore della Terra, rimanda ad antichi culti solari. Un dolce da offrire agli dei e consumare in coincidenza con le feste di primavera.
Palermo IX – XI secolo d.C. in Sicilia arrivano gli arabi e con loro vari prodotti (pistacchio, limone, cedro, arancia amara, mandorla, canna da zucchero …) Palermo è tra le prime tre città più grandi d’Europa.
Un pastore saraceno sta impastando della ricotta di pecora con zucchero di canna in un recipiente semisferico di rame. “Cosa prepari?” chiese un siciliano.
“quas at” rispose il pastore.
I due non si capirono. Infatti quas at è il nome arabo della scodella.
Da “quas at” a “cassata” il passo fu breve.
Che il nome possa essere di origine romana o araba poco importa.
Successivamente alla corte dell’Emiro in Piazza Kalsa a Palermo, i cuochi decisero di avvolgere l’impasto dentro una sfoglia di pasta frolla e di cuocere il tutto al forno.
Nacque così la prima vera versione della Cassata, quella che oggi viene chiamata “cassata al forno”.
Rotonda come il sole ricorda il suo tramonto e risorgere, così come ogni anno si ricorda la passione, morte e resurrezione del Cristo.
Già nel ‘500 viene eletta prodotto ufficiale della tradizione dolciaria delle monache siciliane riservata al periodo pasquale.
“Tintu è cu nun mancia a cassata a matina ri Pasqua” (meschino chi non mangia la cassata la mattina di Pasqua).
XVII secolo, Contea di Modica periodo quaresimale.
In questi giorni di festa, peregrinare da convento in convento, sotto il cocente sole siciliano, e conservare energie per infiammare le chiese più lontane con appassionanti omelie è ancor più faticoso per i padri predicatori itineranti: è iniziato il periodo del digiuno quaresimale.
Il precetto impone loro di non mangiare carne ma ogni regola, si sa, porta con sé un sistema volontario, o involontario, di trasgressioni che la negano, ne dissolvono gli effetti, la sovvertono nei suoi contenuti essenziali.
È così che alle furbette monache di un imprecisato monastero modicano, volpi impietosite dalle fatiche dei confratelli predicatori, viene un’idea: perché non aggiungere della carne trita a un composto di cacao, uova, zucchero, chiodi di garofano, cannella e frutta secca?
Del resto chi sa fare del bene e non lo compie, commette peccato e chi non sa di compierlo non è peccatore.
Nascono così gli ‘mpanatigghi, biscotti a mezzaluna equivalenti a un piatto unico ricchissimo di vitamine e proteine (ne bastano un paio per sostituire un pasto completo), di facile trasporto, di minimo ingombro e più forti del caldo siciliano.
In questo modo, ignari di violare il precetto, i sant’uomini consumano, rigenerandosi, quei saporitissimi biscotti offerti dalle monache, alleviando le fatiche delle predicazioni senza incorrere in un cosciente peccato di gola che per loro sarebbe risultato fatale.
Questi dolci furono probabilmente introdotti, nella Contea di Modica, dagli spagnoli durante la loro dominazione in Sicilia, avvenuta nel XVI secolo.
L’etimologia del nome è chiarissima, deriva dallo spagnolo “empanadas” o “empadillas”, ovvero “focaccia ripiena o piccole cose impanate”; tra l'altro l'uso dell'accostamento carne macinata/cioccolato non è raro nella gastronomia sp****la. All'inizio venivano usate carni di selvaggina ma col passare del tempo furono sostituite dal controfiletto di manzo.
Amate da Sciascia che li definì “dolce nutrientissimo, […] da viaggio in Spagna”
Un paesaggio irreale si stende in un silenzio assordante: è fatto di bianche montagne di sale, di mulini, di minuscole dimore.
Stormi di gabbiani volteggiano nel cielo, rubano un po’ d’azzurro e rompono quella suggestiva calma.
È il mondo atavico delle saline, dove l’uomo, nel corso dei secoli, ha temprato la sua vita e la sua sofferenza.
È il vetusto mondo dei salinari, dove Trapani svela un aspetto del suo fascino e della sua natura.
Al tramonto, il sole che si riflette sulle vasche e sul bianco del sale dona al cielo colori speciali. Come vere nicchie ecologiche, le saline accrescono la loro attività solo in primavera-estate: scovando il clima favorevole del periodo, uccelli come i fenicotteri e gli aironi deliziano la passeggiata.
Il paesaggio delle saline emana suggestione grazie anche alla presenza di antichi mulini e bagli, in cui il silenzio è interrotto solo dai richiami dei gabbiani e dal rumore del vento.
Molti visitatori sostengono che in questi luoghi si possa assistere ai tramonti più belli del mondo.
Quando la luce colpisce le vasche, il bianco del sale e il celeste del mare si tingono di rosso, arancione e giallo creando un’appassionante tavolozza di colori. Nella zona una serie di microorganismi che erano presenti sulla terra miliardi di anni fa, danno luogo agli spettacolari cambiamenti di colore che è possibile ammirare durante le varie stagioni.
Come l’ingegno riesca talvolta a vincere sulla ricchezza.
Il Beccafico è un simpatico e sfortunato uccelletto ghiotto di fichi (da qui il nome). Nella Sicilia del XIX secolo, i nobili siciliani, erano soliti andare alla loro caccia per via della loro carne pregiata.
Spettava ai Monsù, i cuochi delle famiglie aristocratiche, cucinarli farciti proprio con le loro stesse viscere.
Venivano sistemati nei piatti con le piume della coda rivolte all’insù, così da poterli afferrare e mangiucchiarli a piacimento per appagare i loro palati golosi.
Poiché la gente del popolo non poteva permettersi battute di caccia, né tanto meno aveva i soldi necessari per acquistare carne così pregiata, decise di ripiegare su ingredienti meno costosi.
Così i beccafichi furono sostituiti dalle più comuni sarde e le interiora da pangrattato, uva passa e pinoli.
XVI secolo Gliaca di Piraino,
su uno sperone roccioso lambito dal mare, viene edificata una torre che entra a far parte del sistema difensivo delle coste siciliana. Ad oriente la vista mozzafiato delle isole Eolie in fila: Salina sembra a due passi; ad occidente, un'altra torre: quella del castello di Brolo.
Il “Torraro” è uno dei quattro soldati che avevano il compito di controllare i vascelli in transito e di lanciare l’allarme in caso d’incursioni piratesche. Maria “la Bella” era la figlia del signore di Brolo.
I due conoscevano entrambi il linguaggio degli specchi e così comunicavano fra la terrazza della Torre delle Ciavole e il balcone in alto alla torre di Brolo, scambiandosi espressioni d’amore tanto ardenti da sfociare presto in una passione irrefrenabile. Quando si accende la passione è difficile controllarsi. Non si capisce più niente, domina l’istinto e così… i due cominciarono ad incontrarsi.
La bellissima principessa era solita aspettare affacciata al balcone l'arrivo del suo spasimante, che giungeva con una piccola barca fino al porto. L’amante una volta raggiunta la torre, si aggrappava alle lunghe trecce della sua amata (l’esperienza di Romeo e Giulietta docet) per raggiungerla in segreto.
Di ciò si accorse il principe Fabrizio, fratello di Maria che, annebbiato dalla rabbia, in una notte buia e senza stelle si appostò sullo scoglio antistante Brolo (da allora detto “del pianto”), attese l’arrivo dell’ignaro guardiano e lo ferì a morte. Ormai senza vita, messo in un sacco, il corpo del povero giovane venne calato a fondo.
La bella Maria aspettò invano il ritorno del suo amato, disfacendosi sino a morire.
Non si sa quando né perché, ma, a un certo punto, sulla Torre arrivano le ciaule (le taccole). Fanno i nidi, danno il nome alla Torre e voce a Maria: i lamenti della donna e il verso continuo degli uccelli, a un certo punto, si confondono, come una nenia.
"Juta e vinuta! Bona piscata" augura ai pescatori quando il mare è in bonaccia; "Isati li riti! Viniti! Turnati!" consiglia loro quando è il caso di rientrare.
Agosto 1129, Ruggero II d’Altavilla (re di Sicilia, Puglia e Calabria) parte da Salerno per fare il suo ritorno in Sicilia.
Al calar del sole una brezza di maestrale prese a soffiare sul mare. Quattro ore dopo, l’uragano esplose con tutta la sua violenza. Il vento, con impressionante progressione, andò rapidamente aumentando di intensità. La notte era limpida e livida. Una luce sinistra illuminava il mare bianco, dove onde di sei-sette metri si rincorrevano per aggredire la prua della nave.
Poi la straordinaria visibilità fu inghiottita, all’improvviso da un sudario di vele d’acqua, nebulizzate dalla tempesta. Sul ponte di comando, a poppa della nave, il beccheggio era insopportabile nelle gole tormentate dei crateri delle onde.
La paura era sommersa dalla furia del mare, ed era un’impresa riuscire a governare la nave in modo che non si traversasse alla tempesta.
Il re e l’equipaggio erano terrorizzati, non avevano mai visto qualcosa di simile. La nave comincio ad imbarcare acqua, il suo interno era quasi distrutto.
Ruggero II pregò il Signore di salvarlo dalla burrasca.
Una luce apparve nel buio della notte: “Non temere, io sarò con te”.
Ruggero: “Ti prometto mio Signore che farò costruire un tempio alla tua gloria nel posto in cui approderemo sani e salvi”. Al mattino la burrasca si era calmata e ridotta ad una lieve brezza. Anche il mare si era relativamente calmato e così, la nave approdò al porto di Cefalù.
Domenica 7 giugno, giorno di Pentecoste, dell’anno 1131, i lavori del tempio promesso a gloria del SS. Salvatore e dei Santi Pietro e Paolo. ebbero inizio, con la posa della prima pietra. Presenti alla cerimonia lo stesso re, i vescovi e la nobiltà siciliana.
Dal 3 luglio 2015 la Cattedrale di Cefalù è entrata a far parte della World Heritage List (UNESCO). Foto: (Gloria Greco)
Palermo 1875, l’architetto Giovan Battista Filippo Basile guida gli inizi dei lavori per la costruzione del Teatro Massimo Vittorio Emanuele: Il più grande teatro d’Italia, terzo in Europa dopo l'Opéra national de Paris e la Staatsoper di Vienna. Per la sua costruzione, che copre un’area di 7730 metri quadri, occorre abbattere una delle porte storiche della città e quattro chiese. Tra queste la chiesa e il monastero delle Stimmate di San Francesco.
Durante la demolizione involontariamente viene profanata la tomba di una monaca:" mentre scavavano i muratura truvaru 'sta cascia e lu spiddu si svegliò". "Sta monaca 'nqueta a tutti picchì idda non voleva stu teatro al posto del convento". (mentre scavavano i muratori trovarono una cassa e lo spirito si svegliò. Questa monaca nuoce a tutti perché non voleva questo teatro al posto del convento). La “Monachella”, a causa della sua statura limitata, tutt’oggi sembra aggirarsi per il teatro e per il suo giardino pronta a fare qualche scherzetto.
Strani venti attraversano stanze senza finestre e sorprendono chi le attraversa solitario. Molte persone, maestranze e artisti, giurano di averla incontrata.
Si crede sia la responsabile della vita non facile del Massimo. A pochi anni dall’inaugurazione chiuse per un lungo periodo, la famiglia Florio che ne tentò il rilancio fallì miseramente. Nel 1974 chiuse di nuovo per quelle che dovevano essere poche opere di restauro e di adeguamento. Fu invece un lunghissimo periodo di oblio, che lo negò per 23 anni alla città.
Apparve per la prima volta nella sala degli specchi a una cantante che possedeva poteri di una medium, questa avvertì la presenza della suora burlona, cercò di opporsi ma p***e la voce. Le fu quasi impossibile cantare quella sera, sentiva le corde vocali serrate. Confessò che riuscì a liberarsi dopo un pò pregando.
All’ingresso del teatro vi è “il gradino della suora” dove tutti coloro che non credono al suo fantasma inciampano misteriosamente.
In Sicilia i carciofi furono introdotti dai greci che li chiamarono cynara.
Al loro arrivo gli arabi trovarono innumerevoli piantaggioni di carciofi selvatici. Gli diedero il nome di karasciuff.
Noi siciliani li chiamiamo “cacoccioli” (a Palermo “cacuocciuli”). I francesi erano ghiotti di carciofi , a Palermo ne trovarono tanti soprattutto in alcuni terreni vicini alla città. Chiamarono quel luogo Les Chardon, dove oggi si trova il carcere dell’Ucciardone.
Una leggenda greca racconta che Zeus un giorno si innamorò della ninfa Cynara.
Volto luminoso, pelle rosata e occhi verdi dalle rarissime sfumature viola. Un corpo snello e proporzionato ed un portamento elegante e flessuoso. I suoi lunghi capelli erano color cenere e proprio per questo le era stato dato il nome di Cynara (che significava, appunto, cenere). Pur avendo un animo buono e un cuore gentile Cynara era una fanciulla orgogliosa e volubile. Così quando Zeus cominciò a farle la corte, lei lo rifiutò.
Inaccettabile che una ninfa rifiutasse il corteggiamento del re degli dei che, in un moto d'ira, decise di trasformarla in un vegetale che in qualche modo le somigliasse.
Avrebbe dovuto essere verde, spinoso e rigido all'esterno, come era stato il carattere orgoglioso e volubile di Cynara, ma dentro doveva custodire un cuore tenero e dolce, come l'animo della ragazza, e doveva avere un color viola, come i suoi occhi.
Nacque così il ca****fo.
Correva l’Anno del Signore 1091 quando a Donnalucata (Scicli) sbarca la nave saracena Stambul.
L' Emiro Belcane ispeziona le truppe e le prepara alla battaglia.
Il Gran Conte normanno Ruggero d’Altavilla manda un Ambasciatore per invitare Belcane a lasciare l'isola.
Belcane non ascolta le sue parole, sostenendo di essere lui il Signore della Sicilia.
Ruggero ribadisce all'Emiro che la Sicilia appartiene ai Normanni e, all'insistenza di Belcane, dichiara guerra con le parole: "Tu Vuoi guerra? E guerra sia!".
Ma, avendo al seguito solo un manipolo di soldati e la milizia sciclitana, presto le cose si mettono male per i normanni.
Preso dallo sconforto, in ginocchio, rivolge a Maria Santissima una ardente preghiera per la salvezza dei suoi e della città…
… E in quell'istante videro una nuvola dal cielo che splendeva come il sole, dentro la nuvola stava la Vergine, in sella al suo cavallo bianco, vestita con un manto celeste, una corona d’oro in testa e la spada nella mano destra, che esortava il popolo dicendo: Eccomi, città diletta, ti proteggerà la mia destra …
A quella vista i saraceni terrorizzati fuggono abbandonando ogni pretesa di saccheggio e bottino.
Nasce così un dolce che ricordasse la tremenda battaglia ed il miracolo cristiano: “la testa di turco”.
Sebbene somigli ad un bignè l’impasto delle Teste di turco è molto diverso: manca il b***o sostituito dallo strutto che, una volta sciolto, viene amalgamato con farina, tante uova, un po’ d’acqua e un pizzico di sale. L’ impasto cotto al forno diventerà il fragrante “turbante arabo” che verrà riempito di ricotta e scaglie di cioccolato.
Noto anche come “trofeo dei vinti” perché deve la sua paternità a quegli arabi che introdussero le pratiche dolciarie in Sicilia durante la loro invasione.
Mai scalpo fu più dolce!
La “Madonna delle Milizie” è l’unico esempio al mondo di Madonna guerriera. Viene festeggiata tutti gli anni (ultimo sabato di maggio) con una rappresentazione folkloristica che è tutelata (dal 2011) dall’Unesco come “Eredità Immateriale”.
Si Narra che in questo lembo della Sicilia orientale vivesse una splendida ninfa chiamata Galatea, figlia di Nettuno.
La giovane era innamorata del pastorello Aci, con cui soleva amoreggiare lungo una spiaggia della costa.
Ogni giorno, al tramonto, i due si separavano, con la promessa di ritrovarsi all’indomani.
Un giorno, il ciclope Polifemo, innamorato di Galatea, vide i due innamorati che si intrattenevano sulla riva del mare.
Accecato dalla rabbia prese un masso gigantesco e lo lanciò contro Aci, uccidendolo. Il masso continuò la sua corsa e finì in mare, dando origine all’attuale isola di Lachea.
Distrutta dal dolore, Galatea pianse tutte le lacrime del mondo, al punto che gli Dei ebbero pietà di lei. Trasformarono Aci in un fiume, e la ninfa in schiuma del mare, cosicchè i due innamorati potessero abbracciarsi per l’eternità.
Il fiume Aci sgorga dall'Etna e scorre in gran parte sotterraneo, gettandosi in mare proprio in quel tratto di costa in cui s’incontravano i due innamorati. Qui, a testimonianza di quel tragico amore, c’è una sorgente d’acqua dolce dal caratteristico colore rossastro che i siciliani chiamano “u sangu di Jaci”, il sangue di Aci.
Sicilia IX secolo d.C. dominazione bizantina.
Il comandante Eufemio da Messina è al comando di alcuni ribelli nel tentativo di scacciare gli invasori, ma viene catturato e cacciato via con il pretesto di essersi innamorato di una suora e di aver cercato di convincerla ad abbandonare i voti.
Eufemio trova rifugio in Africa, si allea con i Saraceni e guida le loro flotte alla conquista della Sicilia.
17 giugno 827 d.C. La flotta sbarca a Mazara del Vallo. I soldati stanchi e stremati, reclamavano cibo.
Entra in scena il cuoco (di cui purtroppo non si ricorda il nome) del Tumarca la nave di Eufemio.
Costretto dall’emergenza, il nostro eroe, si trova ad utilizzare gli ingredienti a sua disposizione in quel momento: quelli forniti dalla Sicilia, come la pasta, le sarde ed il finocchietto, e quelli forniti dagli stessi arabi, come lo zafferano.
Nasce così un primo piatto buonissimo, dai sapori forti e contrastanti. Decisamente tra i più apprezzati della tradizione culinaria siciliana: la pasta con le sarde ('a pasta chi sardi in siciliano)
Si narra che Acamante, eroe greco figlio di Fedra e Teseo, in viaggio verso T***a sostò per qualche giorno in Tracia.
Qui conobbe la bellissima principessa Fillide e, come nella migliore tradizione mitologica e romantica, non appena gli sguardi dei due giovani si incrociarono, tra i due nacque un amore tenero e sconvolgente.
Ma mentre Acamante deve riprendere il suo viaggio verso la città di T***a dove rimane per i dieci lunghi anni della guerra, a Fillide non resta che scendere ogni giorno alla spiaggia a scrutare l’orizzonte marino per veder scorgere la flotta ateniese di ritorno.
Un giorno la flotta arrivò ma senza Acamante che era stato attardato da una avaria. Dopo nove giorni trascorsi sulla spiaggia, Fillide immaginò che l’amato fosse morto e si lasciò morire di dolore.
La bella e sfortunata storia d’amore non sfugge agli occhi della dea Atena, che decide di regalare una sorta di immortalità a Fillide, trasformandola in un albero di mandorlo.
Al suo arrivo Acamante corse disperato ai piedi del mandorlo, lo cinse amorosamente con le braccia e pianse tutte le sue lacrime. Si narra che, allora, il mandorlo p***e tutto il fogliame e si ricoprì, per la prima volta, di boccioli candidi e fragranti.
I fiori di mandorlo sono i primi a sbocciare in primavera e talvolta nel tardo inverno. Per questo simboleggiano la speranza, oltre che il ritorno in vita della natura ma, sfiorendo nell’arco di un breve lasso di tempo, rappresentano anche la delicatezza e la fragilità.
Ancora oggi, nella Valle dei Templi, questo miracolo a febbraio si rinnova ricordando a tutti i popoli il valore dell’amore e della pace.
Realmonte (Agrigento) un po’ di tempo fa …. Rosa, la bella figlia di un ricco signore, durante la passeggiata quotidiana in compagnia della sua nutrice, vide Peppe, un aitante e bellissimo giovane trasportare sacchi pieni di fave.
Folgorata dalla bellezza del giovane se ne innamorò perdutamente tanto da sfidare le ire dell’arcigno e geloso genitore che la minacciava di rinchiuderla a vita nel monastero delle Suore Orsoline di Agrigento.
I due cominciarono a vedersi furtivamente al calar del sole nel giardino del palazzo di lei. Quando la giovane rientrava nelle sue stanze veniva assalita da un pianto a dirotto a causa della sua infelicità.
La madre era morta dandola alla luce, la nutrice stava dalla parte del padre, Rosa non aveva con cui parlare e con chi consigliarsi.
Purtroppo come sempre accade gli eventi precipitarono. Il padre avendo saputo che la tresca tra Rosa e Peppe continuava decise di chiuderla in un lontano e sperduto monastero palermitano.
La inattesa e br**ta notizia sconvolse la giovane Rosa la quale fra i singhiozzi, informò il suo amato Peppe.
“Uniti per la vita e per la morte" i due giovani amanti si giurarono amore eterno e, in un momento di disperazione, raggiunsero Punta di Monte Rossello da dove si buttarono a capo in giù sacrificando le loro vite.
Alcuni anni dopo, nel punto esatto dove i due giovani trovarono l’orribile morte, spuntarono due scogli, uno legato all'altro da una sottile lingua di roccia.
I pescatori della zona asseriscono che, nelle notti di luna piena e con il mare in bonaccia, si può udire la voce sublime e melodiosa di Rosa che canta una nenia triste e malinconica per il suo sfortunato amore per Peppe.
Ancora oggi i marinai chiamano lo scoglio della Rocca Gucciarda “U’ Scogliu do Zitu e a Zita” (Lo scoglio del fidanzato e la fidanzata).
Castello di Pietrarossa Qalat-An-Nissa (Caltanissetta) anno 900 d.C.
I guerrieri arabi riposano nelle sale del castello dopo l’ennesima battaglia. Il banchetto è fastoso, accompagnato da canti e balli di bellissime donne.
Alcuni di loro chiedono alle concubine dell’emiro di preparare qualcosa di speciale, un piccolo pezzo di paradiso da poter custodire nel bagaglio, una porzione di sogno da portare con sé per rivivere, in qualunque luogo e in qualunque tempo, la magia dell’incanto delle notti a Pietrarossa.
La sfida è difficile, quasi impossibile.
Le donne prendono i frutti della straordinaria Sicilia: mandorle, pistacchi e il miele più dolce e puro. Sul fuoco lento, in un paiolo di rame, cominciano a mescolare tutto.
La sera, al termine del banchetto, portano in tavola un dolce che nessuno aveva mai visto prima: croccante e friabile, gustoso e duraturo, morbido e compatto, leggero e ricco.
È nata la Cubaita.
I guerrieri se ne riempino le bisacce e, andati via dal castello di Pietrarossa, lo fanno conoscere al mondo.
Così Andrea Camilleri sulla cubaita:
La cubaita è semplice e forte, un dolce da guerrieri, lo devi lasciare ad ammorbidirsi un pochino tra lingua e palato, devi quasi persuaderlo con amorevolezza ad essere mangiato.
Ti obbliga a una sua particolare concezione del tempo, ha bisogno di tempi lunghi del viaggio per mare o per treno, non si concilia con l’aereo, con la fretta.
Ti invita alla meditazione ruminante.
Rende più dolce e sopportabile l’introspezione che non sempre è un esercizio piacevole.
Alla dolcezza del miele mischia l’”amarostico” delle mandorle tostate e il ricordo del verde attraverso il pistacchio. Diventa così una sorta di filosofia.
Lago di Pergusa (Enna) un mattino di un po’ di tempo fa …
La bionda e soave Proserpina (figlia della dea Demetra/Cerere), in compagnia di altre ninfe, si divertiva a correre per i prati in fiore. Le splendide creature ridevano, scherzavano, gareggiavano nel raccogliere rose, giacinti, viole per fame ghirlande e adornarsi le vesti.
Ad un tratto un terribile boato lacerò l'aria. La terra si spaccò e dal baratro balzò fuori, su un cocchio d'oro trainato da quattro cavalli nerissimi, il dio delle tenebre Plutone. Con le sue braccia possenti afferrò Proserpina e la trascinò con sé.
Plutone innamorato perdutamente di Proserpina, aveva chiesto ed ottenuto da Giove il permesso di poterla sposare, perciò era venuto sulla terra per rapirla.
La giovane, prima di entrare nel grembo della terra, rivolse alla madre un'ultima e disperata invocazione.
Cerere dall'Olimpo udì le grida disperate della figlia e, sconvolta dall'ansia, scese volando in terra.
Vagò per nove giorni e nove notti, arrivò fin dentro l’Etna, poi a Trapani dove p***e la sua mitica falce, simbolo del grano.
Disperata andò pure da Giove supplicandolo invano di riavere indietro la figlia.
Sempre più disperata, si allontanò dall'Olimpo e si rifugiò in un tempio a lei consacrato, dimenticandosi della terra che aspettava la sua protezione.
A breve in Sicilia fu siccità e carestia.
Giove fu così costretto a richiamare il fratello Plutone che non osò disubbidire ma, prima che Proserpina si allontanasse, le offrì alcuni chicchi di melograno. La ninfa accettò, ignorando che per un'antica legge divina i chicchi di quel frutto l'avrebbero per sempre legata agli inferi.
Non restava altro che arrivare ad un accordo: per due terzi dell’anno Proserpina sarebbe rimasta con la madre mentre il tempo rimanente l’avrebbe dovuto trascorrere con il marito negli inferi.
Da qui la divisione delle stagioni in Sicilia. Quando Proserpina è con Plutone il tempo è gelido mentre ogni volta che torna nel mondo, i prati si coprono di fiori, i frutti cominciano a maturare sugli alberi e il grano germoglia nei campi.
È Primavera.
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