Studio Legale avv. Rosaria Petrolà
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Un utile compendio per dare risposte a queste domande.
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IL RIFIUTO DEL MINORE E LO SPETTRO DELL’ ALIENAZIONE PARENTALE”
Fin dai primi anni di Università ci viene insegnato che il nobile ruolo della Suprema Corte di cassazione sta tutto nella c.d. nomofilachia cioè la garanzia dell’uniforme interpretazione della legge e dell’unità del diritto oggettivo nazionale.
Se è vero, dunque, che la Suprema Corte si pone al vertice dell’Ordine Giudiziario e che il suo compito è impedire che ad una norma di legge possa essere dato un significato biunivoco, fatte salve le peculiarità del caso concreto, tuttavia l’elevato numero di giudizi sui quali la Corte è chiamata a decidere e la altrettanto smisurata quantità di sentenze emesse ogni anno, hanno di fatto reso arduo il compito della Corte.
In questi giorni, assistiamo all’ennesimo esempio di quanto diciamo.
L’ordinanza n. 9691 del 24 marzo scorso sul caso Apadula - Massaro, che tanto clamore ha suscitato, sollecita giuristi, psicologi e centri sociali ancora una volta a riflettere sulla insufficienza, non tanto del tessuto normativo esistente quanto di chi deve farne applicazione – ed in ultima istanza dei giudici di legittimità - in modo tale da garantire al minore la effettiva relazione con entrambi i genitori separati.
Nel caso di specie, la Cassazione ha cassato il decreto della Corte d’Appello con cui quest’ultima aveva dichiarato la madre decaduta dalla responsabilità genitoriale, disposto la collocazione del minore in casa-famiglia e sospeso temporaneamente ogni rapporto tra madre e figlio.
La gravità del provvedimento era stata determinata secondo la Corte d’appello- che sul reclamo della donna aveva confermato analoga statuizione del Tribunale per i minorenni - dalla “improcrastinabile necessità di instaurare i rapporti tra padre e figlio mai esistiti a causa dei gravi comportamenti ostacolanti da parte della madre” (ricorso introdotto dal padre nel 2015).
Il “vizio” del decreto cassato, sta nelle motivazioni che ancora una volta, come rimarca il relatore Caiazzo, riconduce al concetto ascientifico e assai fumoso dell’alienazione parentale.
Motivo fondamentale è secondo la Corte, che cita sé stessa in sentenze analoghe a quella in oggetto (tra tutte la n. 13217 e la 25339/2021) l’acritico recepimento da parte dei giudici d’appello delle conclusioni di tre CTU che “lasciano aleggiare il recepimento della sindrome di alienazione parentale”.
Sulla Pas non indugiamo, perché ne abbiamo parlato in altri scritti, ciò che qui importa far rilevare è che, nel tentativo di indagare ( cosi dice la Corte ) “se sia stato fatto buon governo del diritto alla bigenitorialità e se detto principio che è un diritto del bambino prima che dei genitori, realizzi in ultima istanza il miglior interesse del minore o incontri un limite nell’esigenza di evitare un trauma anche irreparabile allo sviluppo fisico cognitivo del minore rappresentato dall’ablazione totale della figura materna “, la Corte stabilisce un ordine di priorità che a ben vedere non è norma positiva.
In buona sostanza, finendo in un loop la Corte finisce per dire che, fermo restando che è un benessere primario del figlio e non dei genitori che il minore conservi le relazioni con entrambi i genitori ( art 337 ter c.c.) in caso di rifiuto del minore di vedere il padre, determinato dai comportamenti ostacolanti e ostruzionistici materni ( questo è il caso di specie) non si può coattivamente interrompere il rapporto con la madre ( come hanno fatto Tribunale per i minori e Corte d’Appello) perché ciò lederebbe il benessere psicofisico del minore.
Riassumendo, prima viene il benessere psicofisico del minore per la realizzazione del quale si può abdicare alla relazione con il padre, perché il principio di bigenitorialità, che comunque deve realizzare il benessere del minore, deve cedere il passo di fronte alla possibilità che egli venga privato traumaticamente di un rapporto consolidato nel tempo e dell’accudimento che solo la madre sa donargli.
Quindi si afferma il principio di bigenitorialità nell’interesse del minore, per poi un attimo dopo negarlo per affermarne un altro: il preteso benessere psicofisico del minore attraverso la consolidata relazione affettivo accudente della madre escludente quella con il padre.
L’obiettivo è secondo la Corte di Cassazione, scongiurare il trauma irreparabile sul minore che potrebbe derivargli dall’applicazione incondizionata del diritto alla bigenitorialità.
Premesso che non si può che concordare con la Corte nell’affermare che la psiche del minore deve essere tutelata, ciò che riesce difficile da comprendere è il percorso adottato dalla stessa per garantire detto risultato.
A tal proposito non si può non rilevare come la Corte, ad un attenta analisi, entri in contraddizione con se stessa.
Essa infatti, per un verso riconosce come un caposaldo la pronunzia n. 6919/2016 (relatore Lamorgese) - che cita espressamente in ogni sua sentenza – secondo cui “non compete a questa Corte dare giudizi sulla validità o invalidità delle teorie scientifiche e, nella specie, della controversa PAS, ma è certo che i giudici di merito non hanno motivato sulle ragioni del rifiuto del padre da parte della figlia e sono venuti meno all'obbligo di verificare, in concreto, l'esistenza dei denunciati comportamenti volti all'allontanamento fisico e morale del figlio minore dall'altro genitore. Il giudice di merito, a tal fine, può utilizzare i comuni mezzi di prova tipici e specifici della materia (incluso l'ascolto del minore) e anche le presunzioni (desumendo eventualmente elementi anche dalla presenza, laddove esistente, di un legame simbiotico e patologico tra il figlio e uno dei genitori e soprattutto afferma che tra i requisiti di idoneità genitoriale, ai fini dell'affidamento o anche del collocamento di un figlio minore presso uno dei genitori, rilevi la capacità di questi di riconoscere le esigenze affettive del figlio, che si individuano anche nella capacità di preservargli la continuità delle relazioni parentali attraverso il mantenimento della trama familiare, al di là di egoistiche considerazioni di rivalsa sull'altro genitore; comportamenti che, qualora accertati, pregiudicherebbero il diritto del figlio alla bigenitorialità e, soprattutto, alla sua crescita equilibrata e serena".
Dall’altra parte con un’ autentica giravolta la Corte tiene a ribadire la sua ferma ostilità verso detta sindrome, anche se prescindendo dal nomen, viene accertato, come è accaduto nel caso di specie, che quei comportamenti siano stati veramente agìti.
Ora, che la rottura del legame di attaccamento che si viene a determinare con il rifiuto, espone infatti il bambino al rischio di sviluppare patologie psichiche, si puo evincere dall’inserimento degli ostacoli al diritto del minore alla bigenitorialità tra i danni alla persona nelle recenti Linee Guida della Società Italiana di Medicina Legale e delle Assicurazioni (cfr. SIMLA, Linee guida per la valutazione medico-legale del danno alla persona in ambito civilistico, Giuffrè Editore, Milano 2016; cfr. il par. Ostacoli al diritto di visita e al diritto del minore alla bigenitorialità, p. 89).
D'altra parte, come osservano docenti universitari neuropsichiatri infantili e psicoterapeuti del calibro di G.B.Camerini e G.Gulotta, nessuno si sogna di discutere mai l’esistenza del mobbing o dello stalking ( quest’ultimo peraltro solo di recente codificato) eppure le figure, le rispettive sindromi non esistono, cosicchè puo bene ammettersi che la parola sindrome abbai valore meramente descrittivo senza ad esso ricondurre una patologia da ricercare o annoverare in manuali diagnostici.
In un caso recente, analogo a quello appena citato, in cui per inciso il padre non riesce a vedere il figlio a causa dei gravi comportamenti ostativi materni, la Corte Edu- che ormai nella sua agenda ha plurime condanne ai danni dell’Italia - ha statuito che le autorità italiane non hanno adottato le misure necessarie per salvaguardare la relazione tra padre e figlio e che hanno lasciato che la madre del minore mettesse quest'ultimo contro il minore, violando gli obblighi positivi di mettere in atto delle misure concrete ed efficaci per giungere a un riavvicinamento con il padre.
La Corte EDU rammenta che una mancanza di collaborazione fra i genitori separati non può dispensare le autorità competenti dal mettere in atto qualsiasi mezzo idoneo a permettere di mantenere il legame familiare (Nicolò Santilli, sopra citata, § 74, Lombardo, sopra citata, § 91, e Zavřel) soffermandosi in particolare su due elementi: la rapidità e la non stereotipizzazione dei provvedimenti .
Ci chiediamo se quello del 24 marzo, qui in commento, non sia un pericoloso precedente perché, fermo restando il condivisibile rupudio per la forza fisica nell’esecuzione della misura, una nuova composizione della sezione specializzata per i minori della Corte d’Appello dovrà riesaminare il caso “sollecitando l’aiuto alla madre al fine di migliorare la sua capacità genitoriale e persuaderla dell’inizio (dopo dodici anni) dell’importanza di una significativa relazione del minore con il padre” – che quindi per inciso viene messa in discussione.
Non v’è dubbio che la Suprema Corte ha posto un veto importantissimo, al quale i giudici di merito non potranno che attenersi e, atteso il tenore mediatico della pronunzia, è immaginabile anche con quali conseguenze.
E’ come incoraggiare madri e padri di tutta Italia, animati da intenti egoistici, e rivelatisi in ultima istanza dannosi per il minore, a perseverare nelle proprie pervicaci condotte illecite, al riparo da un controllo di legittimità, che a sua volta teme lo “spettro dell’alienazione parentale”.
Insomma è il caso di chiedersi “ quis custodet ipsos custodes?”.
Vi aspettiamo il 9 marzo prossimo al Mondadori Point.
Violenza sui minori e responsabilità genitoriale: riflessioni a margine
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Violenza sui minori e responsabilità genitoriale - Studio Legale Petrolà Violenza sui minore e sospensione della responsabilità genitoriale.
AMBITO E LIMITI DEL DIRITTO DI VISITA DEI NONNI. L’ART 317 BIS C.C.
Con l’ordinanza (data ud. 05/02/2020) 19/05/2020, n. 9145 la Cassazione civile si è soffermata ancora una volta sul diritto di instaurare e mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni, riconosciuto agli ascendenti dall’art. 317-bis c.c..
Va preliminarmente detto che né la Costituzione italiana, né i principi fondamentali di fonte internazionale menzionano espressamente i nonni come soggetti di diritto, all’interno della famiglia. L’art. 24 della Carta dei diritti dell’Unione europea sancisce, infatti, il superiore interesse del bambino a intrattenere relazioni personali con i due genitori e l’art. 30 Cost. parla solo dei diritti e doveri dei medesimi genitori rispetto ai figli.
L’interesse dei nonni a salvaguardare il rapporto coi nipoti viene però in rilievo quale possibile riflesso applicativo delle clausole generali di cui all’art. 8 Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che postula il diritto di ogni persona al rispetto della propria vita privata e familiare e dell’art. 2 Cost.,
quale diritto dell’individuo nelle formazioni sociali in cui si esplica la sua personalità.
La legislazione ordinaria è più chiara perché nell’arco degli ultimi quindici anni, il legislatore, abbandonando una concezione nucleare della famiglia, ha preso atto del ruolo sociale via via sempre più rilevante dei nonni, spesso impegnati nelle funzioni di accudimento dei nipoti invece dei genitori, oggi entrambi impegnati a lavorare.
Ha iniziato così a delinearsi lo status giuridico degli ascendenti che, al di là delle norme in materia di
parentela, successione e alimenti, prima erano, invece, esclusi dal proscenio giuridico.
Status che costituisce una posizione soggettiva piena soltanto nei confronti dei terzi, ciò in quanto esso ha portata recessiva nei confronti dei minori, titolari dello speculare quanto prevalente diritto di conservare rapporti significativi con i parenti - sempre che il suo esercizio coincida con l’interesse esclusivo del minore – finendo per essere compresso qualora non risulti funzionale alla sua crescita serena ed equilibrata(cfr. Cass., Sez. I, 25/07/2018, n. 19779; 12/06/2018, n. 15238).
Già l’art. 155 c.c., come modificato dalla L. 1° marzo 2006, n. 54, stabiliva il diritto del minore a conservare rapporti significativi con gli ascendenti di ciascun ramo genitoriale. Con il D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, detta norma è stata trasposta nell’art. 337-ter c.c.
Ma la vera novità è però rappresentata dall’art.317-bis c.c. che ha dissipato le persistenti incertezze sulla rilevanza giuridica della figura dei nonni, rivalutandola ulteriormente.
L’apposito strumento processuale a disposizione dei nonni
Essa ha infatti istituito, accanto al diritto del minore a intrattenere rapporti con i nonni, lo speculare diritto di questi ultimi a mantenere rapporti significativi con i nipoti, stabilendo un apposito strumento processuale a salvaguardia di tale specifica posizione soggettiva.
Prima della riforma, nel silenzio della legge, l’interesse degli avi ad intrattenere rapporti coi nipoti poteva, infatti, essere attivato nel processo solo provocando un controllo giudiziario sull’esercizio della potestà dei genitori, ai sensi dell’art. 336 c.c. in caso di loro abuso.
Il fatto che i nonni abbiano un diritto e che possano azionarlo in giudizio non significa, peraltro, che esso possa essere fatto valere in maniera incondizionata.
Con l’ordinanza in commento, infatti, la Cassazione ha ribadito che il diritto di visita dei nonni, pieno nei confronti dei terzi, finisca per rivestire una portata recessiva nei confronti dei minori: cioè che esso trovi applicazione solo in tanto e in quanto converga con il loro interesse esclusivo.
Non solo ma i rapporti a cui tutela è stato posto l’art 317 bis c.c. devono, dice la norma, essere “significativi”, ove per significativi deve intendersi coessenziali al progetto di crescita del bambino.
Che cioè comprenda lo svolgimento di un ruolo importante nel progetto educativo in favore dei minori e si sostanzi in un diritto più pieno e completo rispetto a quello di visita.
“AVVOCATO, MIO FIGLIO NON MI VUOLE VEDERE”
Sono queste le parole che sempre più spesso ci sentiamo rivolgere dal genitore, c.d. “non collocatario”, quello cioè presso il quale il bambino è collocato per la minor parte del tempo.
Si fa riferimento agli incontri genitori / figli nell’ambito dei giudizi di separazione e divorzio e che per prassi ormai consolidata nei provvedimenti dei Tribunali distinguono tra genitore collocatario e genitore non collocatario, sebbene la legge non faccia questa distinzione.
L’art. 337 ter c.c, al suo primo comma al contrario dice che “Il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori..” e “il giudice valuta prioritariamente la possibilità che i minori restino affidati ad entrambi i genitori” aggiunge che determina i tempi e le modalità della loro presenza “ presso ciascun genitore” .
Da questo inciso normativo, che sancisce il principio di bigenitorialità da orma 15 anni, si è scivolati verso la “c.d. collocazione” in funzione del maggior tempo trascorso presso uno dei due genitori, sempre tenendo presenti le esigenze del minore e le necessità dei genitori.
La permanenza maggiore o minore presso uno dei due (che nel 90% dei casi è la madre) determina altresì - in funzione del reddito di ciascuno - la quantificazione del c.d. mantenimento indiretto del genitore c.d. non collocatario.
La maggiore presenza del minore presso una dei due però, che a causa del ruolo primario nei primi anni di vita del bambino è la mamma, determina l’influenza “orientata” della stessa nei processi formativi della volontà del minore.
In altre parole, gli accesi conflitti spesso in atto tra i due coniugi vengono traslati sul minore, che diventa sempre più spesso diventa “bottino di guerra” e che viene strumentalizzato al fine di estraniare il genitore meno presente.
Il figlio così, subisce un processo di “adultizzazione”, diventa ipercritico e denigratore nei confronti di uno dei genitori (denominato, appunto, “alienato”), perché l’altro (c.d. “genitore alienante”) lo ha influenzato in questo senso, dicono i padri – “gli ha fatto il lavaggio del cervello.”
Detta problematica, più che riguardare la diagnosi di sindromi universalmente disconosciute dai manuali di psichiatria, riguarda il piano dei comportamenti: in particolare degli illeciti. Ce ne siamo occupati in questo blog stigmatizzando il comportamento dei genitori che si servono di questo maggior tempo a loro disposizione per alienare l’altra figura genitoriale.
COSA FARE QUINDI - CI CHIEDE IL GENITORE ALIENATO – SE MIO FIGLIO NON VUOLE VEDERMI?
Sebbene sia astrattamente legittimo dare ascolto alla voce dei più piccoli, è altrettanto vero che bisogna ascoltare anche la voce del genitore alienato.
In ogni caso il Tribunale, chiamato a pronunciarsi sul conflitto genitoriale, ha l’obbligo di indagare sulle ragioni che portano un minore a non voler incontrare il proprio genitore.
Ha l’obbligo di capire perché nel giro di poche settimane quello che era il genitore con cui andava al parco o giocava a pallone improvvisamente non è più desiderato e addirittura respinto.
Il concetto di “alienazione genitoriale” gradualmente è stato negli anni riconosciuto anche in ambito giuridico, trovando diffuso ingresso nelle aule dei Tribunali, ove i giudici, in alcuni casi, hanno adottato severi provvedimenti per contrastare dette condotte.
Non potendo dunque parlarne come di una patologia, ha detto la Cassazione, possiamo parlare di comportamenti che non vanno trascurati. Va in questa sede ricordato che alla luce delle plurime sentenze dei Tribunali di merito e di legittimità (cfr.: decreto Tribunale di Milano del 13.10.2014, Cass. civ n.7041/2013 nonché recentemente Cass.civ. n.6919/2016) detta fenomenologia comincia ad essere opportunamente valorizzata con l’accordo pressoché unanime di avvocati e psicologi.
Segnaliamo di recente cosa è accaduto in un caso portato all’attenzione del Tribunale di Brescia che si è pronunciato in merito con la sentenza del 22 marzo 2019.
UNA SENTENZA STORICA IN MATERIA DI ALIENAZIONE GENITORIALE
Con la sentenza n. 815 del 22 marzo 2019 sentenza.pdf il Tribunale di Brescia si è pronunciato in merito ad interessante caso di separazione personale ad alto tasso di conflittualità fra due coniugi, con reciproche contestazioni anche relativamente all’affidamento della figlia minore.
Nel caso in esame la madre, sin dall’inizio del procedimento, ha sostenuto l’inadeguatezza del padre a rivestire il ruolo di genitore, chiedendo l’affidamento esclusivo della figlia, con disciplina del diritto di visita al padre in forma protetta. Gli iniziali provvedimenti provvisori avevano stabilito l’affidamento condiviso della minore con suo prevalente collocamento presso la residenza della madre per convivere con la stessa, disciplinando il regime di visita del padre.
Il rapporto tra la minore e il padre, inizialmente positivo, andava progressivamente peggiorando, fino ad arrivare ad un rifiuto generale della minore a trascorrere del tempo con il padre.
La situazione era connotata da particolare gravità perché la madre aveva sporto querela nei confronti del marito, accusandolo di aver tenuto comportamenti inappropriati in danno della minore nei tempi di permanenza presso di lui (in particolare lo accusava di toccarla nelle parti intime). Conseguentemente il giudice disponeva gli incontri protetti con il padre e disponeva consulenza tecnica psicologica al fine di approfondire le cause del deterioramento del rapporto padre-figlia, oltre all’analisi delle capacità genitoriali delle parti. Venivano, altresì, incaricati i Servizi Sociali territorialmente competenti per avviare un monitoraggio familiare.
GLI OTTO SINTOMI TIPICI DELL’ALIENAZIONE GENITORIALE
La CTU accertava nel caso appena segnalato tutti i sintomi caratterizzanti la PAS, ravvisando nella condotta materna l’origine del deterioramento del rapporto padre-figlia e affermando in modo condivisibile, che gli otto sintomi tipici dei comportamenti alienanti utili «a valutare i punti critici nelle relazioni disfunzionali tra il minore ed il genitore rifiutato» sono tutti presenti:
1) la campagna di denigrazione, nella quale il bambino mima e scimmiotta i messaggi di disprezzo del genitore alienante; 2) la razionalizzazione debole dell’astio, per cui il bambino spiega le ragioni del suo disagio nel rapporto con il genitore alienato con motivazioni illogiche, insensate o superficiali; 3) la mancanza di ambivalenza. Il genitore rifiutato è descritto dal bambino “tutto negativo”, mentre l’altro genitore è “tutto positivo”; 4)Il fenomeno del pensatore indipendente: il bambino afferma che ha elaborato da solo la campagna di denigrazione del genitore; 5) l’appoggio automatico al genitore alienante, quale presa di posizione del bambino sempre e solo a favore del genitore alienante; 6)l’assenza di senso di colpa; 7)gli scenari presi a prestito, ossia affermazioni che non possono ragionevolmente ve**re da lui direttamente; 8)l’estensione delle ostilità alla famiglia allargata del genitore rifiutato.
Nel dettaglio si rilevava come la madre, a dispetto di alcuni rimproveri, dal contenuto meramente formale, rivolti alla figlia quando la stessa rifiutava il padre (di essi danno atto i Servizi sociali nelle ultime relazioni depositate), la sentenza dice che “il reale comportamento della madre – con cui la bambina ha stretto un «conflitto d’alleanza» è stato costantemente teso a limitare l’accesso della figlia al padre.”
Al contrario il comportamento del padre nei confronti della bambina veniva valutato positivamente, tanto da dubitare dell’attendibilità della denuncia materna, sfociata poi nell’archiviazione del procedimento penale da parte del Gip. di Brescia in quanto priva di riscontri probatori.
In definitiva il Tribunale ha disposto l’affido esclusivo al padre con diritto di visita della madre alla presenza di un educatore individuato dai Servizi Sociali, al fine di “limitare possibili condizionamenti della madre e garantire il graduale consolidamento del rapporto padre-figlia”.
QUANDO, QUINDI, SI HA CAPACITÀ GENITORIALE?
A sostegno delle proprie decisioni il Tribunale ha citato le conclusioni delle indagini svolte e ha richiamato un importante principio di diritto espresso dalla Corte di Cassazione con la sentenza 8 aprile 2016 n. 6919, in base al quale “tra i requisiti di idoneità genitoriale rileva anche la capacità di preservare la continuità delle relazioni parentali con l’altro genitore, a tutela del diritto del figlio alla bigenitorialità ed alla crescita equilibrata e serena”.
Senza alcun dubbio una sentenza coraggiosa che interrompe una prassi giurisprudenziale, e che non può affatto dirsi superata nemmeno alla luce della recentissima sentenza della Suprema Corte la n 13217/ 2021, che nel semplice negare la scientificità della Pas - cosa già fatta dalla stessa Suprema Corte – non puo dimenticare il principio di diritto stabilito prima secondo cui :
“…in tema di affidamento di figli minori, quando un genitore denunci comportamenti dell'altro genitore, affidatario o collocatario, di allontanamento morale e materiale del figlio da sè, indicati come significativi di una PAS (sindrome di alienazione parentale), ai fini della modifica delle modalità di affidamento, il giudice di merito è tenuto ad accertare la veridicità in fatto dei suddetti comportamenti, utilizzando i comuni mezzi di prova, tipici e specifici della materia, incluse le presunzioni, ed a motivare adeguatamente, a prescindere dal giudizio astratto sulla validità o invalidità scientifica della suddetta patologia, tenuto conto che tra i requisiti di idoneità genitoriale rileva anche la capacità di preservare la continuità delle relazioni parentali con l'altro genitore, a tutela del diritto del figlio alla bigenitorialità e alla crescita equilibrata e serena..\Cass.civ 6919 2016.pdf .
UTERO IN “AFFITTO” E TUTELA DEL MINORE
Come è noto la legge 40/2004 sulla procreazione assistita non consente che venga riconosciuto nello Stato italiano il provvedimento straniero che inserisce il genitore che lo ha commissionato (genitore d’intenzione) nell’atto di nascita del minore procreato con il c.d. utero in affitto( maternità surrogata).
La questione, di recente rimessa all’esame della Corte Costituzionale è quella dello stato civile dei bambini nati con la pratica della maternità surrogata, per l’appunto vietata dall’ordinamento italiano.
In particolare, è discusso il riconoscimento giuridico del legame del bambino con il genitore non biologico o “genitore d’intenzione”, cioè con chi ha voluto e condiviso il progetto genitoriale senza aver dato i propri geni.
PERCHÉ È STATO NECESSARIO L’INTERVENTO DELLA CORTE COSTITUZIONALE?
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza n. 12193/2019 hanno escluso che lo Stato italiano possa riconoscere un provvedimento straniero che dichiari il rapporto di filiazione tra il bambino nato con “maternità surrogata” e il genitore che “lo ha commissionato”, perché contrario a ragioni di ordine pubblico: proprio perché in Italia è punita la pratica della c.d. surrogazione di maternità.
Con la sentenza n. 33 del 2021, attraverso un lungo iter argomentativo, la Corte costituzionale, pur confermando la posizione delle Sezioni Unite della Cassazione sulla contrarietà all’ordine pubblico del c.d utero in affitto, ha posto un principio importante di tutela del minore nato all’estero proprio con questa pratica e ha fatto rilevare l’interesse al riconoscimento del legame giuridico anche con il genitore non biologico.
Sotto questo profilo, la Corte Costituzionale in linea con le autorità sovranazionali, ritiene che questa forma di tutela possa essere riconosciuta, eventualmente ricorrendo ad un procedimento di adozione effettivo e celere che il nostro ordinamento già consente attraverso la procedura di adozione in casi particolari (art. 44 comma 1 lett. d della Legge 184/83. La Corte però esclude che la predetta procedura sia adeguata a realizzare l’interesse del minore, in quanto essa non attribuisce la genitorialità all’adottante, ed appare dubbio che sia in grado di costituire vincoli di parentela con nonni zii, fratelli e sorelle.
Anche l’avvocatura per i diritti LGBTIQ ha sottolineato la necessità di distinguere tra divieto di surrogazione di maternità e tutela del nato a seguito del ricorso a tale pratica.
Dalla giurisprudenza costituzionale si trae in sostanza il principio per cui, «al di là delle scelte che i genitori possono compiere anche in violazione della legge italiana, l’interesse primario da salvaguardare deve rimanere quello del nato al riconoscimento formale del proprio status di figlio, elemento costitutivo della sua identità personale protetta sia livello nazionale che sovranazionale.
La Corte Costituzionale ha quindi affermato che il divieto della gestazione per altri non impedisce al giudice di valutare nel singolo caso la sussistenza dell’interesse del minore a mantenere il proprio status nei confronti del genitore che non vanti con esso alcun legame biologico, anche perché la legge n. 40 del 2004( sulla procreazione assistita) pur vietando la surrogazione di maternità, nulla dispone quanto alle conseguenze per il nato da tale pratica all’estero dove essa è consentita.
La Corte, dichiarando quindi inammissibile la questione di legittimità costituzionale, ha quindi invitato il legislatore a disciplinare un procedimento di adozione idoneo a realizzare l’interesse del minore nato all’estero, da maternità surrogata, al legame di filiazione con il genitore non biologico.
ASSEGNO DIVORZILE E PENSIONE DI REVERSIBILITA’: LA COMPRESENZA DEL CONIUGE SUPERSTITE CON IL CONIUGE DIVORZIATO. A CHI SPETTA LA PENSIONE?
Non esiste avvocato divorzista che non si sia sentito chiedere dal proprio assistito quali siano i diritti conseguenti alla pronunzia di divorzio, se nel frattempo l’ex coniuge abbia contratto nuovo matrimonio.
In particolare, con la sentenza che dichiara la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il soggetto divorziato perde la qualità di erede legittimario che viene invece riconosciuta al coniuge superstite. Da ciò deriva che, senza testamento, nessuna pretesa potrà vantare il coniuge divorziato sul patrimonio dell'ex coniuge defunto.
Tuttavia, nel nostro ordinamento esiste la norma dell’art 9 legge 898/70 (legge sul divorzio) che sancisce il diritto del coniuge divorziato a percepire una quota della pensione di reversibilità in concorso con l’eventuale coniuge superstite.
UNA GUERRA TRA POVERI INSOMMA
La domanda quindi alla quale è chiamato a rispondere l’avvocato divorzista è: quanta parte della pensione di mio marito o di mia moglie - sebbene sia più frequente il primo caso - dovrò dividere con l’ex coniuge?
Va subito chiarito che la pensione di reversibilità spetta all’ex coniuge se ed in quanto lo stesso sia titolare di un assegno divorzile e che è necessario che detto diritto sia attuale, cioè non sia stato percepito in un un’unica soluzione.
• A tal proposito l’art 9 co.3 della legge 898/70 precisa che “«Qualora esista un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità, una quota della pensione e degli altri assegni a questi spettanti è attribuita dal Tribunale, tenendo conto della durata del rapporto, al coniuge rispetto al quale è stata pronunciata la sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio e che sia titolare dell'assegno di cui all'art. 5 (assegno divorzile.) Se in tale condizione si trovano più persone, il Tribunale provvede a ripartire fra tutti la pensione e gli altri assegni, nonché a ripartire tra i restanti le quote attribuite a chi sia successivamente morto o passato a nuove nozze».
Resta dunque compito del giudicante equilibrare la percentuale di pensione di reversibilità spettante ai primi e ai secondi tenendo bene in considerazione che andranno soppesati anche i periodi di convivenza prematrimoniale delle seconde nozze - del soggetto defunto - con il periodo di separazione del primo matrimonio prima del divorzio.
L’attribuzione della pensione di reversibilità, secondo recenti sentenze della Cassazione, deve tenere in considerazione il sostegno economico prestato in vita dall’ex coniuge beneficiario di assegno divorzile che nell’ottica della Corte ha quindi funzione assistenziale e perequativo-compensativa cioè serve a consentire all’ex coniuge - privo di reddito perchè oggettivamente impossibilitato a procurarseli - un livello di reddito adeguato al contributo prestato durante il matrimonio per la realizzazione del patrimonio familiare.
La Cassazione ritiene infatti che, anche ai fini del riconoscimento del diritto all’assegno divorzile la rinunzia al lavoro fatto dal coniuge per accudire la prole, se ed in quanto abbia contributo al successo personale dell’altro coniuge, abbia un suo peso rilevante.
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