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Se non sappiamo cosa vogliamo veramente, quale scelta potremo mai fare?
È difficile sapere tuttavia cosa vogliamo: vogliamo una cosa e anche il suo opposto.
Siamo presi dalla morsa dell'ambiguità del nostro iper-ragionare. Eppure, se ci guardiamo dentro, la risposta c'è sempre, quella giusta. La confusione è dettata dalla paura di sbagliare strada. Abbiamo perso la bussola che altro non è che la conoscenza profonda di noi stessi. Se ci conosciamo almeno un po' e abbiamo il coraggio di essere sinceri nel nostro dibattito interiore, sappiamo infine quale svolta dare alla nostra esistenza. Ma se non ci conosciamo e mentiamo a noi stessi, sicuramente sbaglieremo, anche per il solo fatto di rimanere bloccati nell'indecisione.
Non c'è patologia dell'anima che non sia infestata dall'ansia e dalla paura. Allora si agisce a caso, di impulso, pensando di poter controllare gli eventi, il mondo esterno e determinare il futuro a modo nostro.
Non c'è nulla che si possa controllare, se non quelle quattro cose che sono "presso di noi", come dice Aristotele, intendendo quel poco che dipende da noi, che è a nostra portata di mano.
È necessario guardarsi ben bene dentro e comprendere cosa realmente vogliamo e possiamo fare. Solo così agiamo consapevolmente e riusciamo a fugare ansie e angosce. Ma guardarsi dentro è esplorare l'abisso delle nostre contraddizioni, e ci vuole impegno.
Le depressioni e tutti i disturbi oggi dilaganti derivano dal voler controllare il futuro per evitare imprevisti o fare previsioni profetiche catastrofiche, oppure sono determinati da un oscuro senso di colpa che fa apparire irrimediabile il passato, di cui si ha il più delle volte una visione distorta, del tutto soggettiva.
L'analisi non è un passatempo consolatorio in cui lamentarsi. È trovare cosa veramente siamo e vogliamo essere per il tempo che resta. È riconoscere la nostra esistenziale mancanza e non riempirla ubbidendo alle solite compulsioni, ma scegliendo il modo unico che ognuno di noi sa in fondo all'anima. Altrimenti si continua a navigare a vista e senza fine, in preda al dubbio e all'angoscia.
Ma pochi oggi sono disposti ad andare in fondo intraprendendo un percorso di analisi che altro non è se non l'incontro con sé stessi.
Alcuni incominciano e si ritraggono troppo presto pensando di avere raggiunto la vetta del monte, quando in realtà si è appena alle falde. Si accampano motivazioni di vario genere che nascondono la verità (che sta nel non voler cambiare). Il cambiamento bisogna davvero volerlo e ci vuole impegno e coraggio.
Le motivivazioni più diffuse riguardano il tempo e il denaro. Non si rinuncia a nulla che soddisfi il momento: un week end, un viaggio, la macchina nuova, la palestra o il parrucchiere ecc. ecc. Non si rinuncia a viziare i figli spendendo capitali mandandoli a scuole o università private, o permettendo loro ogni tipo di sport, anche costoso. Non si possono contraddire i nuovi comandamenti che oggi imperano.
Se i genitori non sono in equilibrio, cosa potranno vivere i figli? E poi, non è meglio investire denaro per la salute psichica di un figlio anziché soddisfare altre sue presunte necessità?
Oggi va così, purtroppo, e le conseguenze sono un mondo di gente depressa, infelice, e una pletora di giovani che non trovano un senso alla propria vita, quando non lo trovano tragicamente nell'uso di droghe e in rapporti malati. Basta ascoltare le persone che parlano al cellulare ad alta voce sciorinando tutti i propri problemi o fare un giro su Instagram o Tik Tok per rendersi conto della vacuità che ottenebra le menti distraendole dalla presa di coscienza di come si sta realmente.
So bene che ciò che dico non servirà a nulla, o quasi, ma sento il dovere di essere sincera con me stessa e con tutti.
Ecco, ho una visione: un mondo di bambini nel corpo di adulti o di vecchi, che vogliono con prepotenza il primato gli uni sugli altri, si invidiano, si odiano, si fanno i dispetti, fanno i capricci e giocano a fare mamma e papà. Altri giocano alla guerra. Quelli che si accorgono di quanto grottesca sia la tragicommedia che interpretano, scappano via dall'asilo infantile e cercano aiuto nella cura. Gli altri sono già morti, non si sa con quanti decenni di anticipo.
Un passo dal mio libro "Il Male" in cui ho posto il problema se sia reale la presenza del male sul piano ontologico o se sia una percezione soggettiva che di esso si ha.
"Lui questa sensazione se la portava dentro non si sa da quanti anni.
Forse dai quattro. Una mattina, quando il corpo è sveglio ma forse il cervello non è ancora del tutto vigile, aveva avvertito per la prima volta la presenza di qualcosa di misterioso e imponente, un essere multiforme composto di arti animaleschi, dal tronco villoso come quello di un primate ma con una testa umana rasata dal volto giallognolo e con gli occhi grigi, vitrei, obliqui come quelli di un chirghiso: qualcosa di cui si ha il terrore perché è lì pronto ad avvinghiarti quasi abbia artigli ricoperti di squame al posto delle mani.
Terrorizzato, non ne aveva fatto parola con nessuno per un irrazionale, del tutto ingiustificato senso di colpa, altrettanto misterioso e spaventoso, che lo aveva invaso. Era come se fosse lui il responsabile, lui il creatore dell’accadimento mostruoso.
Tuttavia il fenomeno lo attraeva e desiderava che si verificasse nuovamente per riprovare quell’emozione potente e indescrivibile che in qualche modo dava spessore alla sua anima, lo faceva sentire vivo, lo scuoteva dal torpore delle sue giornate monotone, lo faceva pensare, lo incuriosiva, gli dava un senso sebbene attraverso l’orrore. Si era ripresentato molto spesso e ogni volta in modo originale, diverso, una sorta di coccodrillo dalle fauci dentate spalancate o di aquila che lo avrebbe avvolto e portato via chiudendolo dentro le sua mostruose ali.
Ma ogni volta che non si verificava, quasi in sostituzione dell’eccitamento che quell’apparizione scatenava in lui, per l’intero arco della sua fanciullezza, come sospinto da un impulso irrefrenabile, aveva preso l’abitudine di recarsi molto presto, prima di andare a scuola, al mattatoio per guardare lo spettacolo, che puntualmente veniva messo in scena, con i suoi propri occhi che rimanevano incollati alle carni lacerate e al sangue di quelle creature innocenti.
Abitava in un piccolo borgo montano alle appendici dell’Appennino e non gli era certo difficile né impedito intrufolarsi e guardare dalle sbarre del cancello quel tafferuglio di gente indaffarata in uno scempio tremendo accompagnato da un caos di imprecazioni che riuscivano quasi a coprire il lamento straziante di quegli esseri destinati al macello e consapevoli di esserlo.
Questa abitudine era diventata una vera dipendenza che improvvisamente con l’inizio della pubertà, chissà mai per quale ragione, era svanita. Se ne era chiesto perché ne fosse stato schiavo, quale piacere ne avesse mai potuto provare, perché uno strano piacere misto di repulsione e attrazione c’era sempre stato, e come mai di colpo questa calamita verso l’orrido avesse cessato di funzionare.
Anche le presenze mattutine erano di colpo svanite con il passaggio dalla fanciullezza all’adolescenza, ma non mai la sensazione di quell’alito caldo che la sua pelle, il confine del suo corpo, talora gli sembrava emanasse o dal di fuori lo attraversasse senza che egli riuscisse a sbarrare. Non gli accadeva spesso ma gli accadeva.
Si sentiva diverso da tutti, strano, sebbene la sua indole bisognosa di contatto umano lo spingesse a ricercare sempre la presenza di un compagno di scuola, di qualcuno che avrebbe fugato quel sentimento di noia, o meglio di paurosa solitudine con sé stesso, che più di ogni altra cosa gli era insostenibile. Così, studiando con i compagni di classe e giocando a pallone con gli amici, trascorrevano senza troppi pensieri le ore dell’adolescenza. In casa, solo con sé stesso, era inquieto, gironzolava qua e là senza combinare niente, non ci sapeva stare. Non si può amare la solitudine se dentro l’anima non abbiamo una serena concezione di noi. E lui evidentemente questa non l’aveva maturata."
La nostra "piccola storia"
Si parte da oggi per capire ieri e si parte da ieri per capire oggi. Non credo che non sussistano nessi causali ben precisi e individuabili, sebbene c'è pure chi lo abbia affermato (ripenso alle interminabili diatribe dei postsocratici che hanno occupato la mia mente per anni), e non penso che la causa sia solo una categoria della nostra mente limitata. Ci sono cause esterne e interne, determinate dal nostro libero arbitrio o dalla nostra propria ĺnatura. Si tratta di concause.
Credo di averlo scritto da qualche parte, ma io sono una che non rilegge mai nulla di ciò che scrive. L'ho scritto di sicuro in un trattato, quando mi occupavo di questi argomenti che oggi sembrano interessare solo a qualche filosofo. Ma neanche, perché oggi i filosofi polemizzano tra loro di altro e pochi riescono a capire il loro linguaggio.
C'è la grande storia che è il cammino dell'umanità, qualcosa che portiamo in grembo senza saperlo e ci determina, che lo si voglia o no, e c’è la piccola storia che abbiamo più o meno consapevolmente contribuito a creare noi stessi e che per ognuno di noi sembra tutto, un tutto unico e assoluto, mentre è solo il tempo che abbiamo vissuto e che ci raccontiamo a modo nostro mescolando alla rinfusa gli accadimenti e perfino alterandoli.
Ma le emozioni che hanno prodotto no, sono quelle e sempre le stesse. Restano incise come un'iscrizione latina.
In questo pomeriggio di fine ottobre, seduta sulla mia poltrona rossa, dove ascolto le storie dei miei pazienti, penso a quanto piccola e insignificante sia infine la mia storia.
Eppure per me, come per tutti, è l'intero universo spaziale e temporale in cui le nostre membra si sono mosse dal primo vagito a oggi.
In fondo siamo tutti un grammo di vita, ancorati a quattro ricordi che eternamente vivono in noi e di cui dobbiamo conservare preziosa memoria perché sono il coagulo della nostra identità, questo nostro poco difronte all'eterno. Eppure questo poco è tutto ciò che ci portiamo addosso e con cui andiamo in giro per il mondo sopravvivendo a noi stessi con questo corpo che çambia e questa strana, miracolosa cosa che non so dire cosa sia, mente, anima, coscienza, spirito, memoria. Ma sento che c'è e mi fa dire “esisto”, unica, irripetibile, proprio qui su questa poltrona rossa che vedo, tocco, mi sostiene.
Whatsapp è stato inventato per inviare e ricevere comunicazioni brevi, non per fare conversazioni virtuali soggette sempre alla dubbia capacità interpretativa degli interlocutori, né tanto più per diatribe dialettiche che possono anche finire non bene. Esiste il telefono, il parlare a voce, o non si ha neanche più il tempo o la voglia di sentirsi? Ho scritto un romanzo tutto basato sull'ambiguità di questo tipo di comunicazione.
Inoltre le spunte blu ci danno la conferma che il nostro messaggio è stato letto. Noto che oggi va sempre più di moda togliere questa funzione, così come togliere l'ora in cui si è fatto uso dell'app. Chi lo fa avrà di certo i suoi buoni motivi, chissà... Forse non vuole rispondere subito? Vuole prendersi del tempo? Ma non è detto che si è obbligati a rispondere all'istante...
Però mi sembra educato far vedere che si è letto il messaggio. Certo, se il messaggio proviene da qualcosa o qualcuno che non ci interessa leggere, non siamo obbligati a leggerlo. Ma in ogni altro caso si legge e gentilmente si risponde, a meno che non si sia ricercati, braccati o ci si senta così tanto importanti da mettere in attesa chissà per quanto tempo la persona che stava inviando una comunicazione, a volte necessaria, importante. Mettiamoci bene in testa che nessuno è più importante di nessuno, siamo tutti "la goccia nel secchio". Ma lasciamo stare un autore che credo siano rimasti in due o tre a conoscere.
Questo nostro momento storico, già tanto difficile, perché renderlo ancora più difficile? Come possiamo sperare, pretendere che il mondo vada meglio se non conosciamo cosa sia il rispetto, l'educazione? Ma oggi queste parole sono arcaiche. Io sono arcaica e rimango così, senza alcun interesse per le mode.
Il mio rapporto con i giovani
Per la mia professione sono a stretto contatto con persone di tutte le età, dai giovanissimi ai meno giovani fino ai più anziani. Mi muovo come un palombaro dentro l'abisso non violato nella sua verginità dal sole. Mi addentro con una piccola torcia e mi accorgo che ognuno degli esseri che incontro sprigiona una sua innata luce. So tuttavia che, abituati a quella pressione, non sopporterebbero indenni una rapida risalita. Vado piano. Aspetto con pazienza che ognuno trovi il suo modo coraggioso di raggiungere la superficie seguendo il percorso che gli è più congeniale.
Il lavoro più difficile è tuttavia paradossalmente con i più giovani che sono immersi in un mondo nel quale io innanzi tutto debbo inoltrarmi, un mondo a me estraneo, alieno, ma che devo a tutti i costi conoscere. Allora ascolto la loro musica, mi addentro in quel luogo per me caotico del loro comunicare esclusivamente attraverso messaggi, per lo più inviati attraverso Instagram. Mi inoltro nelle loro vite confuse, disorientate, dominate da insicurezze ben mascherate dietro selfie, emoticon tutti da interpretare. Vivo su più piani contemporaneamente, quello mio e quello loro, cercando di non perdere la bussola. I giovani hanno un lessico diverso dal mio e me ne devo appropriare. Non conoscono nulla o quasi di ciò che io conosco. Non hanno mai letto un libro. Non hanno mai sentito nominare un Beethoven... Conoscono altre cose che io non so, ma le apprendo da loro, stando lì sotto, al buio, sconcertante per me ma non per loro. Mi rendo conto di quanto le esperienze che vivono siano lontane anni luce da quelle da me vissute alla loro età.
Eppure il futuro è nelle loro mani e il mio compito è incoraggiarli, avviarli verso una maggiore autostima, fiducia in sé, senza la quale non si può avere neanche fiducia negli altri. Devo vivere come loro, nei loro drammi familiari, condividere il sentimento di essere incompresi, soli, senza alcun punto di riferimento solido. Devo vivere le loro paure e illusioni, la loro dipendenza col cuore trepidante da un messaggio che non arriva, dalle mille ipotesi che si formano nel cervello. Non è facile essere oggi così giovani, senza storia, spuntati chissà come e per caso in un sottobosco pieno di rovi e spine. Mi faccio coraggio e mi pungo anche io per provare quello che essi provano. È un mondo terribile quello che a loro è stato dato, e fa paura. Si accorpano stretti alle loro scarse e poco affidabili amicizie, anche se solo virtuali (ma in fondo anche per noi che siamo molto to più che adulti, non è forse così?).
Li prendo teneramente per mano e solo così avviene un processo osmotico per cui tutto ciò che è nel loro cervello entra in me e viceversa. È una sorta di trasfusione di sangue o uno strano processo alchemico. Alla fine, se è riuscito, ci ritroviamo sullo stesso piano, io con un po' di loro e loro con un po' del mio vissuto.
Ciò che mi dà coraggio è la consapevolezza che dentro il cervello di ogni uomo c'è tutto il mondo, la memoria infinita dall'uomo sapiens in poi, la capacità di sentire gli stessi sentimenti, dalla rabbia alla collera, alla malinconia, all'amore che sta sempre sotto a tutti gli altri e li determina, la certezza che la nostra mente è immensa e grandiosa, per cui tutto ciò che si ascolta, si vede, rimane lì ed è fonte di eterne risorse.
Ritorniamo insieme in superficie, io meno affaticata dal peso dei miei anni, loro molto più consapevoli dell'importanza, pesante, della loro esistenza.
Apro a caso "Perdite Ambigue" e mi trovo davanti a questa frase che mi fa sorridere.
"Non possedeva né l'estrema brillantezza del Casanova né aveva nulla in comune con la gaia e insieme tragica figura del Don Giovanni."
Queste parole potrebbero essere un bell' epitaffio sulla tomba del protagonista maschile del mio libro, se mai fosse realmente esistito!
In un libro intriso di eventi drammatici, a volte è opportuno usare un po' di ironia. Così credo si debba fare anche nella vita che viviamo.
La noia è un sentimento importante. Oggi sembra essere devastante al punto tale che si deve fuggire da essa in qualunque modo e a tutti i costi. Può portare alla stasi, alla malinconia, fino alla vera e propria depressione.
Ognuno di noi avrà sicuramente provato noia a momenti o per un più lungo periodo.
Il bambino spesso si annoia e, proprio per fuggire da questo senso di mancanza, di inerzia, è creativo. Ha bisogno di inventare un gioco, una fantasia. È importante che i genitori non si preoccupino se il bambino si lamenta sentendosi annoiato. Non sta a loro essere creativi al suo posto. Lasciamo che si annoi fino a che non escogiti il modo per evadere dal senso di inutilità che in quel momento avverte.
Si deve imparare da soli come affrontare il vuoto, la solitudine, la mancanza di senso di un'ora o di una giornata. E non si evade riempiendosi con la compagnia di qualcuno che non è detto si possa trovare a proprio piacimento.
Se si è abituati sin da piccoli ad affrontare certi momenti, più tardi, nell'adolescenza, non si starà sempre incollati al cellulare passivamente, senza produrre alcunché.
Il discorso vale oggi più che mai per gli adulti, se mai adulti sono realmente diventati, che non sanno sopportare la solitudine, il silenzio, e devono essere in continuo contatto col mondo esterno, sia pure in modo virtuale.
La solitudine è fonte di riflessione, di autoconoscenza, di idee e nuovi interessi da scoprire. Ecco perché dico che ci sono momenti di stasi, di inerzia, che sembrano negativi ma non si debbono evitare neutralizzandoli col primo oggetto a portata di mano, come il telefono, il cibo o qualunque altro tipo di droga.
Prendiamo un libro, ascoltiamo musica, facciamo qualcosa di nuovo e non cerchiamo disperatamente che dall'esterno arrivi la panacea.
Ciò non significa che l'essere umano non abbia bisogno di relazione, anzi. L'essere umano è per sua natura relazionale, ma non può relazionarsi bene con nessuno se non ha imparato a essere autonomo trovando in sé il suo mondo interiore.
Siamo attratti da ciò che è a noi simile, ma più spesso e pericolosamente da una silenziosa e f***e estraneità, giustificata e in qualche modo spiegata dall'innata assenza di contatti con il nostro mondo.
È ciò che chiamiamo fascino.
Molte relazioni prendono avvio così. Quando poi ci rendiamo conto che quel mare misterioso non è altro che la proiezione delle parti più oscure di noi stessi che rifiutiamo di portare alla coscienza e di agire, proviamo attrazione mista a repulsione. Ma è sempre tardi.
L'aggancio è avvenuto e siamo esche in cui l'ago si è conficcato.
Situazioni tra il tragico e il grottesco accadono, e anche spesso e più volte, nella vita di una coppia. Ne sento i resoconti da parte dei miei pazienti e non solo.
Ho voluto riportare un breve passo che realisticamente descrive la scena in un mio romanzo scritto anni addetro intitolato "La Vita". (Pag. 70)
"... lo aveva odiato quella sera in cui aveva tirato le somme di tutta una vita di calpestamenti. Questa ennesima scudisciata era per lei troppo.
Lui, assalito sulla porta al suo rientro, anziché confessare il suo peccato, un peccato "mortale, poiché si trattava per lei che non capiva più nulla, di estremo tradimento di fiducia dopo giustifiche e sermoni colpevolizzanti dati a fiume, negò spudoratamente perfino giurando sulla figlia, sulla Bibbia che assiduamente leggeva e citava. Lei, che oramai aveva le prove, rimase atterrita dalla capacità di mentire fino a quel punto. Tutto aveva potuto sopportare, questo no.
Allora gli intimò di uscire all'istante di casa, come un dipendente che fa danni e viene licenziato in tronco. Addio etica, addio umanità, addio comprensione. Erano entrambi caduti negli inferi. E questo fu per lui l'avverarsi dell'abominio e della desolazione su cui così ossessivamente si era fermato a meditare.
Come Pompei, in una sola sera, era stato incenerito e sepolto senza scampo."
Ma nel romanzo, così come nella realtà, non finisce di certo così. C'è sempre un dopo, pronto all'agguato con sensi di colpa, pentimenti e scuse, rattoppamenti, da entrambe le parti.
Però ciò che è stato fatto, detto, non si dimentica mai e alla prima occasione rispunta fuori come la gramigna fra i mattoni del patio ben ripulito con l'ipoclorito di sodio.
Dobbiamo stare attenti a ciò che facciamo e diciamo. Basta poco a buttar giù le palafitte su cui si regge una relazione, anche se è costruita con tutti gli accorgimenti per essere antisismica.
L'errore è umano, tutti compiamo errori, il più delle volte per stupidità. L'emotività prende il sopravvento sulla ragione. Solo chi è consapevole delle proprie fragilità può accettare e perdonare quelle dell'altro e solo il perdono di sé, innanzi tutto, e dell'altro, permette, sul ricordo indimenticabile del passato, di edificare nuovi piani della casa, rinforzandone bene le fondamenta.
Oggi i rapporti non durano perché non si è disposti a comprendere le ragioni dell'altro.
Ognuno pretende l'affermazione del suo ego. Addio famiglia. Se non si è maturi abbastanza è meglio non crearla.
I figli sono gli spettatori invitati loro malgrado ad assistere impotenti a scene come quella che ho descritta.
Nulla può privarci della nostra libertà di pensare e di agire come decidiamo di agire. Possiamo accettare con saggezza quanto accade, ma reagire è spesso inutile. Non sono mai gli eventi esterni la causa della nostra infelicità. Sono le interpretazioni che ne diamo.
Questo ben lo disse ai suoi tempi Epitteto, che, pur schiavo in catene, non si sentiva privato della sua libertà. Inoltre ricordiamoci sempre il monito di Aristotle che ci ricorda che "poche sono le cose in nostro potere", ma su quelle dobbiamo far conto e ne abbiamo la responsabilità.
Le interpretazioni che diamo a quanto accade derivano da convinzioni talmente radicate nel nostro cervello emotivo che non ci rendiamo conto di quanto a volte siano completamente distorte dalla realtà. Ognuno di noi parte da assiomi inderogabili e, quando ciò che accade li contraddice, anziché mettere in discussione tali presunte verità, possiamo addirittura rinforzarle e insistere, comportandoci ripetitivamente sempre allo stesso modo e ritenendoci nel giusto. Si dà la colpa agli altri, alla sfortuna, o non so a che altro. Più gli assiomi sono rigidi, più si va incontro al malessere. Pretendiamo che la vita vada nel verso in cui noi vogliamo che vada. E se non ci va? Anziché fermarci e interrogarci su cosa abbiamo realmente il potere di cambiare o se c'è in noi qualcosa che non va bene, ci arrabbiamo, riproponiamo gli schemi appresi e divenuti abituali, per nulla originali e creativi. Così non potremo di certo avere risultati soddisfacenti. Anzi, le situazioni andranno ancor peggio, ma non ci si arrende, anche se tutto va a rotoli.
Condizione necessaria è comprendere una volta per tutte che non possiamo dirigere a nostro piacimento la vita. Dobbiamo rinunciare alle nostre assurde pretese e vedere la realtà per come è veramente. Aristotele ci invita a prendere in esame la realtà quando dice che "Le cose stanno così, sia che tu le affermi, sia che le neghi."
Dobbiamo modificare quelle convinzioni che guidano come un satellitare i nostri pensieri e i nostri comportamenti, perché, se stiamo male, dipende solo dal nostro errato giudizio.
L'unica verità indiscutibile che potrà guidare bene le nostre vite, sostituendo ogni altra primordiale convinzione, è che noi abbiamo un infinito valore a prescindere da tutto, che siamo creature che non devono dimostrare nulla al mondo per avere considerazione; che il nostro valore come esseri umani è inviolabile, assoluto e non dipende dal giudizio esterno che può essere tanto positivo quanto negativo.
Noi tutti siamo, sin dal concepimento, progettati perfettamente per essere quelli che siamo, non per elemosinare approvazioni che sono del tutto contingenti e non indispensabili.
Il cammino dell'analisi comporta una revisione totale del nostro modo di interpretare le cose per acquisirne uno in cui l'unico "dovere" che abbiamo è stare nella realtà, essere liberi di essere come per natura siamo, non tradire noi stessi, mai, per compiacere, avere potere, essere considerati di valore e tante altre cose inutili.
Ma per arrivare a questo ci vuole un'esplorazione sincera e coraggiosa di come purtroppo abbiamo imparato a porci nel mondo, che è il più delle volte il modo più antitetico rispetto al progetto per il quale siamo stati creati. Tutto il resto che sentiamo, leggiamo da tutte le parti, non serve a niente. Viviamo l'epoca della chiacchiera. Si parla a vanvera di questioni estremamente delicate e difficili da risolvere. Si propongono "strategie" risolutive.
L'essere umano ha bisogno di riappropriarsi della propria libertà e dignità. Non è un oggetto da riaggiustare. Non ci sono regole o tecniche specifiche come un orologio da riparare.
C'è solo da considerarlo sacro e degno del massimo rispetto, anche se vive in modo disagiato.
Tuttavia è bene ricordare che nessun terapeuta potrà condurre il suo paziente oltre l'orizzonte che ha in prima persona raggiunto. Se il terapeuta non è libero , non si è emancipato da ciò che lo rendeva schiavo delle sue arcaiche distorsioni, dal bisogno di riconoscimento e potere, cosa assai diffusa e insidiosa, il paziente non potrà recuperare il senso sacro e unico della sua esistenza.
Credo che ognuno di noi trovi il suo modo per stare al mondo, un modo più o meno funzionale per sé e per la società, ma è l'unico che ha trovato. Con ciò voglio dire che non si può parlare superficialmente di "malattia mentale", così come non si dovrebbe parlare di normalità. La persona che porta dentro di sé una sofferenza (ma chi è esente dalla sofferenza?) la esprime a modo suo ed è sempre il modo che ha trovato per sopravvivere. La nevrosi, che fa parte della vita stessa, è sempre un compromesso. Siamo tutti "diversi" e menomale. Non intendo sparare contro la psichiatria che fa diagnosi e assegna farmaci. È il suo compito cercare di comprendere e attenuare il disagio che invade la psiche. Ma a volte crea più danno che risoluzione del problema, come tanti discorsi che avvengono nei colloqui di psicoterapia o psicoanalisi.
La mia è una professione difficile e bisogna essere stati noi stessi terapeuti dei pazienti, portatori consapevoli dei nostri disagi, delle nostre fragilità, del nostro modo di stare al mondo, per arrivare ad apprezzare la nostra unicità e renderla creativa superando ogni malessere preesistente. Se non è accaduto questo non possiamo metterci nei panni dell'altro, entrare nel suo dolore cogliendone il valore per tirarne fuori tutta la luce che vi è sepolta, ma c'è.
Il dolore deve trovare uno sbocco positivo, quello che fino a quel momento non ha potuto trovare e ha indirizzato la persona a pensieri, emozioni e comportamenti controproducenti, autosabotanti o antisociali.
Il dolore fa parte della vita, è ciò che ci rende umani, non è una condanna ma l'unico modo per crescere, comprenderci.
Le persone che soffrono di un disagio psichico sono dotate di una maggiore permeabilità agli eventi esterni. Tutto arriva dentro, anche il minimo alito di vento, e suscita emozioni che scuotono tanto positivamente quanto in modo catastrofico, con i comportamenti che ne possono conseguire. Non sono, come si potrebbe comunemente pensare, persone più sensibili. Ho detto più permeabili. E questo è un dato biologico, ci si nasce in un certo modo e si può essere più o meno reattivi al condizionamento ambientale, che ha anche pur sempre il suo peso. Tuttavia tale predisposizione può diventare un dono se sin da piccoli si è compresi ed educati a farne tesoro, anziché essere giudicati strani o inadeguati.
Se osserviamo le vite degli artisti, di molti scienziati, o comunque di persone eccezionali, vediamo come la loro creatività sia emersa da situazioni paradossali, molto difficili e dolorose. Certo, non tutti coloro che soffrono di un disturbo psicologico saranno uno Schumann, un Nietzsche, un Van Gogh...
Ma possono essere educati (educare in senso etimologico significa condurre per mano, non strattonare) a fare di questa innata permeabilità maggiore qualcosa di buono, anziché di antisociale, pericoloso per sé e per gli altri.
Riflessioni in studio.
Freud disse che il lavoro del genitore è impossibile. Aggiunse anche che è sempre fallimentare e in perdita. Queste parole sembrano crude, amare, ma se non fosse così non ci sarebbe progresso. Dovremmo accettare che noi genitori non siamo "nani sulle spalle dei giganti", siamo giganti sulle spalle dei nani. È paradossale, lo so. Stare sulle spalle del passato, della tradizione, se da un lato ci dà una visione più ampia, dall'altro ci condiziona potentemente. È vero che conoscere il passato, il proprio in primis, permettere di non riperpetuarlo, sempre che lo si conosca a tal punto da vincere la compulsione a ripetere gli stessi errori, ma è anche vero che i figli sono diversi dai genitori e faranno le loro esperienze diverse. Più sono diverse, più cresceranno. Le nostre servono poco a loro. Invece le esperienze che i nostri figli fanno, molto difficili oggi, gli ostacoli, tanti, che incontrano, ci mettono difronte all'imprevedibilità dell'esistenza, a rischi a noi sconosciuti. Forse possono aprirci scenari nuovi, per noi sconcertanti, ma ci possono aiutare ad assumere una visione più ampia. Questo è l'atteggiamento che dovremmo assumere nei confronti dei giovani, incoraggiandoli, senza sentirci sempre superiori. Senza neanche volerli proteggere dalle insidie della vita. Quello che abbiamo potuto insegnare loro, è stato fatto nei primi dieci anni della loro vita. Dopo si può poco o niente. Dobbiamo smettere di abbatterci per la visione non certo rosea del futuro. Se ci abbattiamo noi, cosa sarà di loro? Credo che dare loro fiducia sia importante. Il futuro è a tutti ignoto, e per fortuna. Ma vediamo di infondere nelle nuove generazioni fiducia e speranza. Combatteranno le loro battaglie, saranno loro i protagonisti delle loro vite. Noi abbiamo il compito di stare sempre lì, fermi, punti di riferimento quando ci è richiesto. Smettiamola di dire "ai miei tempi". Erano diversi. I miei figli sono oramai più che adulti, ma per il mio lavoro sono in contatto con le insicurezze, i problemi dei giovanissimi. L'adolescenza è difficile, lo sappiamo, lo è stata anche per noi, ricordiamocela. Siamo gentili, rispettosi verso questi giovani che ci sembrano degli alieni, perché sta a loro portare avanti il peso della storia.
Forse saremo un po' meno fallimentari e in perdita.
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