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Psicologa - Psicoterapeuta
Dedicate, se potete, qualche minuto a queste righe che racchiudono il senso di ogni terapia.
Quanto ci diamo la possibilità di stare in quel cadere?
In fondo ogni sintomo è il risultato del volersi rialzare il più presto possibile, come nulla fosse ac-caduto.
Vorrei scrivere ancora una volta, un'altra piccola parte della parola seme, per dire: imparare a cadere.
Che non sia un volo distratto e veloce da pulirsi il cuore dalla polvere, guardarsi intorno per vedere se qualcuno ci ha viste, rialzarsi velocemente e proseguire; camminare trattenendo il dolore per non far vedere il passo zoppo e l'amore storto, anche se tanto lo è: la caduta distratta non porta il tempo della cura, il passo di danza e l'amore frutto.
Porta un'acerbezza, un aspro, una tinta spenta, un sapore che poteva essere splendore e invece no.
Vorrei pronunciare seme per dire che per fare la vita cade e resta caduto, a volte proprio lì ai suoi piedi, altre rotola poco più in là, altre ancora si lascia alzare in volo per trovarsi in terra sconosciuta e si pensa oltre che caduto, perduto.
Non fa altro che restare così, a guardare il cielo che si fa notte e poi giorno, pioggia e neve, sole, giorni e stagioni.
Vorrei dire seme per dire che poi arriva un coraggio che si fa radice, un respiro che diventa stelo, una speranza che gonfia il boccio, un sopprosso che è il fiore, la comprensione fatta a frutto, la gioia che porta il colore e il sapore.
Vorrei dire che ogni giorno cadono miliardi di semi e restano lì tutto il tempo che è sempre quello necessario e che basta affinché il camminare non sia più un zoppicare ma un fiorire adagio andare.
Parole che scardinano, pungono.
Ci spogliano dai nostri lustrini e brillini.
Ma se non rimaniamo aggrappati strenuamente all'orgoglio che colpiscono e alle nostre difese ci aprono ad un grande senso di umanità.
E allora, come ogni anno e al di là di qualsiasi religione o sentire, auguri a tutti coloro che sono o si sentono "sparigliati" sotto questo cielo di Natale.
“Nello scasso profondo dei nuclei familiari Natale arriva come un faro sui cocci e fa brillare i frantumi. Si aggiungono intorno alla tavola apparecchiata sedie vuote da tempo. Per una volta all’anno, come per i defunti, si va in visita al cerchio spezzato.
Natale è l’ultima festa che costringe ai conti. Non quelli degli acquisti a strascico, fino a espiare la tredicesima, fino a indebitarsi. Altri conti e con deficit maggiori si presentano puntuali e insolvibili. I solitari scontano l’esclusione dalle tavole e si danno alla fuga di un viaggio se possono permetterselo, o si danno al più rischioso orgoglio d’infischiarsene.
Ma la celebrazione non dà tregua: vetrine, addobbi, la persecuzione della pubblicità da novembre a febbraio preme a gomitate nelle costole degli sparpagliati. Natale è atto di accusa. Perfino Capodanno è meno perentorio, con la sua liturgia di accatastati intorno a un orologio con il bicchiere in mano. Natale incalza a fondo i disertori.
Ma è giorno di nascita di chi? Del suo contrario, spedito a dire e a lasciare detto, a chi per ascoltarlo si azzittiva. Dovrebbe essere festa del silenzio, di chi tende l’orecchio e scruta con speranza dentro il buio. Converge non sopra i palazzi e i centri commerciali, ma sopra una baracca, la cometa. Porta la buona notizia che rallegra i modesti e angoscia i re.
La notizia si è fatta largo dentro il corpo di una ragazza di Israele, incinta fuorilegge, partoriente dove non c’è tetto, salvata dal mistero di amore del marito che l’ha difesa, gravida non di lui. Niente di questa festa deve lusingare i benpensanti. Meglio dimenticare le circostanze e tenersi l’occasione commerciale. Non è di buon esempio la sacra famiglia: scandalo il figlio della vergine, presto saranno in fuga, latitanti per le forze dell’ordine di allora.
Lì dentro la baracca, che oggi sgombererebbero le ruspe, lontano dalla casa e dai parenti a Nazareth, si annuncia festa per chi non ha un uovo da sb****re in due. Per chi è finito solo, per il viandante, per la svestita sul viale d’inverno, per chi è stato messo alla porta e licenziato, per chi non ha di che pagarsi il tetto, per i malcapitati è proclamata festa. Natale con i tuoi: buon per te se ne hai. Ma non è vero che si celebra l’agio familiare. Natale è lo sbaraglio di un cucciolo di redentore privo pure di una coperta. Chi è in affanno, steso in una corsia, dietro un filo spinato, chi è sparigliato, sia stanotte lieto. È di lui, del suo ingombro che si celebra l’avvento.
È contro di lui che si alza il ponte levatoio del castello famiglia, che, crollato all’interno, mostra ancora da fuori le fortificazioni di Natale.”
Quando visito una città, o anche un piccolo paesino, perfino un borgo abbandonato di montagna, vado sempre in cerca di una Chiesa. Che sia una grande cattedrale o una minuscola chiesina mezza diroccata.
Non perché io sia mossa da un particolare spirito religioso.
Ma perché in questi posti mi emoziona e commuove il pensare a quante anime siano passate da lì lasciando tra quelle mura preghiere, intenzioni, desideri, speranze.
A quanti siano entrati per ingraziare o per supplicare.
A quanti sorrisi per le celebrazioni più belle e a quante lacrime di dolore o preoccupazione.
Mi piace pensare che siano posti animati da un’energia particolare, io la sento così.
In questi posti sento forte quello che spesso dico alle “mie” persone in studio: alla fine “siamo tutti lì”, in dinamiche di paura, si insicurezza, di rabbia, di fragilità, di perdita, di abbandono, di amore.
Certo, chi per un verso, chi per un altro.
Chi in una fase della vita, chi in un’altra.
Chi più, chi meno.
Non condivido con voi questo perché “mal comune mezzo gaudio” e non certo per sminuire la sofferenza di ognuno! Ma perché credo che collocarsi nel complesso, ogni tanto, possa anche farci bene, possa alleviare il nostro sentirci, a volte, animali così strani rispetto agli altri.
Ecco, sono incappata in questo video per puro caso e quest’opera mi riporta a quello che sento nelle cattedrali e nelle chiese: mi emoziona che in quel preciso punto ci si senta di condividere qualcosa che può anche essere profondo, estremamente intimo, rendendolo visibile a tutti, "nero su bianco".
Voi cosa ne pensate?
Ecco il video: https://www.instagram.com/reel/CzZWcj3LNZ2/?igshid=MzRlODBiNWFlZA==
Oggi è la Giornata Mondiale della Salute Mentale e qui per Equilibrio Donna avevo scritto un approfondimento sull'importanza di destigmatizzare lo spazio della terapia.
Destigmatizzare la psicoterapia - Equilibrio Donna Perché andare in psicoterapia? Per conoscersi meglio, non accettarsi e basta! Parliamo di vera salute mentale e di emozioni.
Non guardo la tv praticamente mai.
Sono moltissime le volte in cui sento nominare persone che partecipano ai talent di cui ignoro totalmente l'esistenza.
Qualche giorno fa, però, si parlava dello scambio tra Ambra e Morgan (che so chi siano!) a seguito dell'esibizione di una ragazza ad X-factor (e si, quell'esibizione poi me la sono andata a cercare online).
Morgan chiedeva, al termine dell'esibizione, “Perché tutti piangono? Tutti si identificano in un dolore, ma perché?”.
Ambra, commossa, rispondeva “Perché è il posto più comodo dove stare certe volte”.
Quelle parole mi hanno riportato, dritta dritta, ad un libro che amo molto, "Un bene al mondo" di Andrea Bajani.
Un romanzo universale.
Un romanzo, quasi una fiaba, che ci tocca tutti, perché tutti portiamo con noi un Dolore.
Un Dolore che conosciamo da così tanto tempo e così nel profondo da sentire, a tratti, come un luogo paradossalmente sicuro, nostro.
Un luogo in cui rifugiarci.
"C'era un bambino che aveva un dolore da cui non voleva mai separarsi. Se lo portava dappertutto, ci attraversava il paese per andare a scuola tutte le mattine. Quando arrivava in classe, il dolore si accucciava ai suoi piedi e per cinque ore se ne stava senza fiatare. [...] Anche quando il bambino andava in bicicletta nei boschi, il dolore gli correva accanto. Non aveva bisogno di guinzaglio perché non sarebbe mai scappato, e non aveva bisogno di museruola perché non avrebbe comunque fatto male a nessuno.
[...] La sera il bambino si lavava, perché così gli avevano insegnato. Poi si metteva il pigiama. Sua madre e suo padre guardavano la televisione, e quando lui si affacciava per la buonanotte non si voltavano. Alzavano la mano da dietro il divano.
[...] C'era un giaciglio accanto al letto perché il dolore avesse un suo posto ma il dolore non ci dormiva mai. Saltava sul letto e si addormentava appoggiando la testa sui piedi del suo padrone. A metà della notte si infilava sotto le coperte con il bambino e lo riscaldava alitandogli in faccia. E quando suonava la sveglia, la prima cosa che faceva il bambino, ancora prima di aprire gli occhi, era cercare il dolore col braccio"
(È un consiglio di lettura? Si!)
Ecco cosa ho letto nel mio mese di agosto.
E voi avreste qualche suggerimento di lettura da condividere?
Rieccomi, dopo mesi di silenzio che già facevano seguito, a loro volta, ad un lungo periodo di discontinuità.
Ricompaio nel periodo dei “buoni propositi”. E non perché questa pagina sia un buon proposito che devo portare avanti, no.
Ma perchè ho messo per me nuovi pensieri e nuovi percorsi in pentola.
Questo silenzio qui ha fatto seguito a situazioni personali complesse di vita e alla sensazione di aver bisogno di “uscire”, di “togliermi” per un po’ rimanendo a guardare tutto il movimento veloce, spasmodico, scomposto che percepisco intorno a me e che, al momento, rifuggo un po’.
Troppe informazioni, troppe parole, troppe banalizzazioni.
Anche nell’ambito della psicologia che, è bene ricordarlo, è una scienza. E invece è tutto un fiorire di narcisisti, di borderline, di diagnosi fatte dietro una tastiera per scaricare sull’altro, sull’esterno, dinamiche e responsabilità.
Banalizzazione, l’ho già nominata?
Sento il profondo bisogno di ritornare alla scienza, allo studio, all’approfondimento che non è fatto (grazie al cielo) di psicologia del positivo ma è fatto di ricerche, di metodo.
Mi sono regalata per questo autunno un nuovo di corso di formazione sui Disturbi di Personalità, così nominati e diagnosticati al bar ma così poco conosciuti in modo preciso.
Sento il bisogno di chiarire, di fare anche meno ma meglio. Credo fermamente che bisognerebbe ripartire da qui anche su macro scala per far fronte ad alcune dilaganti problematiche sociali, anche di violenza.
E sento il bisogno di dare il giusto peso a due dimensioni che sembrano in antitesi ma che non lo sono: leggerezza e densità, profondità.
Trovo che gli ultimi anni abbiano lasciato spazio ad un pericoloso fraintendimento per cui “bisogna lasciare andare per vivere bene”. Per cui questa sarebbe la leggerezza (“Dammi un po’ di musica leggera perché ho voglia di niente”, ricordate? Queste espressioni, a livello sociale, non emergono per caso). Ma questa no, questa non è leggerezza. E’, appunto, non pensare. E’ fare come lo struzzo che mette la testa sotto la sabbia.
Alla leggerezza, quella vera, arrivi solo davvero se ciò che è denso, profondo e a volte anche pesante lasci che sia. Lasci che faccia il suo. Con tutta la difficoltà che ne deriva, ben consapevole che non sia una passeggiata piacevole per nessuno!
E’ quello che cerchiamo di fare in terapia creando uno spazio per ciò che ci fa soffrire, che ci fa male. Non cancellandolo o rimuovendolo.
Al percorso formativo a cui ho fatto cenno si affiancherà la prosecuzione di una formazione iniziata già da un po’. Una formazione che ha a che fare con i libri e con gli albi illustrati.
Piano piano, tempo al tempo…
Buona ripresa a tutti voi!
Vi lascio con le parole della Candiani sulle ferite, sa dire tutto molto molto meglio di me!
“Bisogna salvare le ferite. Non lasciarle sole, sperdute nell’idea fissa della medicazione e della guarigione. Bisogna interrogare le ferite e aspettare le risposte. La risposta alla ferita siamo noi. I nostri gesti, le nostre possibilità accolte o respinte, i tremori e gli assalti rispondono tutti alle ferite. Perdere una ferita significa perdere una segnaletica importante per un viaggio dentro le orme dell’esistenza, un viaggio che ci accomuna e ci distingue, ci fa cantati, cantati dalla vita cruda.
E poi ci sono le ferite che non guariscono, quelle che non guariranno mai.
Sono le ferite che difendono la dignità.
Vanno tenute in vita.
Non si accettano inviti a dimenticarle, a placarle, a addomesticarle.
E ci verrà offerto molte, molte volte, dalle piú diverse persone.
Ci diranno che le ferite restano perché non si perdona, e sapremo che perdono significa oblio, e sapremo che si tratta del complotto per salvare la faccia ai violenti, per coprire il male, per zuccherarlo, e vivere nella menzogna. Esiste una lotta, tra chi vuole fare del mondo un posto grazioso, avvolto dal pensiero positivo e dal nascondimento delle tenebre e chi nelle tenebre c’è stato, ne ha i segni addosso e vuole vivere, ma non vuole dimenticare, vuole stare nell’onore al vero. È una lotta all’ultimo respiro, non bisogna soccombere e non si tratta di diventare violenti ma saldi, decisi, feroci: la verità dell’esistenza, la dignità di portare ferite, non si tocca.
E non si tratta.
Non si scende a patti.
Il mondo è anche un inferno e chi c’è stato vuole ricordarlo, e dirlo”
Oggi ricorre la .
Come molti di voi sanno per diversi anni ho lavorato in campo oncologico e posso affermare con certezza che quell'esperienza, tra le prime lavorative e molto lunga, continua a dare i suoi frutti ancora adesso nel mio lavoro per tutto ciò che ho imparato.
Quello che non dimentico mai, che si tratti di cancro come di altre patologie, è che nessuna esperienza di malattia si può ridurre al periodo di diagnosi e cura. Va ben oltre.
Tempo fa ho scritto un articolo in cui approfondisco alcuni tra i tanti aspetti emotivi che vive la persona interessata ma anche chi le vive accanto che spesso, in assoluta buona fede, non mette a fuoco punti nodali fondamentali per essere un ottimo supporto.
Qui trovate l'approfondimento:
https://www.equilibriodonna.it/limpatto-emotivo-della.../
Equilibrio Donna
L'impatto emotivo della malattia oncologica. - Equilibrio Donna La malattia oncologica ha un impatto emotivo molto forte sulla persona, un aiuto su come trovare le parole giuste dalla Dott.ssa Cassone.
Ed ecco arrivato il giorno di uscita di questo ebook, un ebook pensato per Equilibrio Donna con Arianna Alimentazione in equilibrio.
Un ebook che ha come titolo “A dieta da una vita” ma che non parla di dieta… parla di vita!
Parla cioè di cambiamento, di consapevolezza, di scelta.
Parla di riflessione.
Parla di tutto quello che possiamo mettere a fuoco prima di approcciarci ad un’alimentazione che ci faccia stare bene. Perché ci sono dei tassellini nei nostri pensieri e nelle nostre scelte che se non visti, non maneggiati, non incastrati bene rischiano continuamente di esporci alla frustrazione che poi ci porta a sentirci “sbagliate” a sentirci quelle che “falliscono sempre”.
Questo ebook non fa per voi se:
- cercate il trucco per stare dentro una dieta e dentro un conteggio calorico
- cercate frasi motivazionali e ad effetto che spingono giusto (e forse) da Natale a Santo Stefano.
Ma fa per voi se:
- volete abbandonare quel pensiero costante del “dover stare a dieta”
- rivolgete a voi stesse parole come “fallimento”
- se avete voglia di approcciarvi alle vostre scelte (e non solo alimentari) e ai vostri obiettivi in senso costruttivo e non con quel sottofondo di continua e costante e privazione.
All’ebook abbiamo aggiunto un piccolo workbook stampabile in modo da poter riflettere e trasferire su carta ciò che man mano si mette a fuoco rispetto ai temi trattati. https://www.equilibriodonna.it/prodotto/a-dieta-da-una-vita/
Lo so, manco da questa pagina da parecchio tempo.
Ritorno qui oggi in occasione della Giornata Mondiale della Salute Mentale.
Le varie giornate mondiali, internazionali, nazionali, mi fanno sempre un po' sorridere a dire la verità ma se questa può comunque essere l'occassione per fermarci un attimo a riflette perchè no?
Colgo l'occasione per ricondividere un articolo scritto tempo fa per Equilibrio Donna che mi regala spesso l'opportunità di approfondire qualche contenuto che mi sta a cuore.
Buona lettura e...prendetevi cura del vostro benessere mentale❤️
Destigmatizzare la psicoterapia - Equilibrio Donna Perché andare in psicoterapia? Per conoscersi meglio, non accettarsi e basta! Parliamo di vera salute mentale e di emozioni.
Posso forse mancare l'"appuntamento" che ho ogni anno con queste parole?
Proprio no.
Auguri a tutte noi, madri comunque.
"Si diventa madri in molti modi. Per amore o per caso, di parto naturale o di parto per adottare, per convinzione, per convenzione. Certo è che se hai un figlio tra le braccia, è nato per una botta di fortuna. Sinceramente dico, ho nel curriculum tre gravidanze e due figli, so bene che nascono anche solo al primo tentativo. Ma fortuna ci vuole, e pure tanta. Il punto è che conosco donne che sono madri, madri e basta. Pure senza figli.
La mia è diventata madre senza mai essere stata figlia, e tuttora mentre cerca quell'affetto filiale è madre in ogni cosa che fa. Non solo con me, è madre quando è al fianco di sua sorella, è madre quando cucina per chi non ha tempo, è madre quando ricama un asciugamano per bambini che ama, anche se non fanno parte della sua famiglia.
Si diventa madri in molti modi. Ma io parlo dell'essere madre. Che non ha nulla a che fare con l'anagrafe. Le mie sorelle (di cuore accordato) sono diventate madri quasi contemporaneamente alla nascita dei miei figli. Quando nasce un bambino è sempre una storia di famiglia, non solo di mamma e papà. Però entrambe sono madri ben prima e ben oltre i loro figli di pancia.
Perché si può essere madri persino con la propria madre, o il padre, quando ha bisogno di sostegno. Si può essere madri quando si va in giro per il mondo a educare a forme altre di maternità, quando con le proprie parole si allatta un mare di figli orfani di affetti, di radici, di vita e di terra sotto i piedi.
Si può diventare madri di figli disabili ed essere madri di mille battaglie. Morire a ogni alba per un peso troppo grande, rinascere a ogni tramonto per le piccole cose leggere, che non hanno peso ma hanno valore.
Conosco madri che hanno perso i loro figli, per scelta o per fatalità ma sempre per dolore, eppure li ritrovano in ogni angolo della loro vita. E madri che ancora li stanno cercando, madri con travagli lunghissimi. Madri che camminano nel buio mentre vorrebbero solo dare alla luce.
Conosco madri che sono, nelle case, nelle corsie d'ospedale, nelle scuole, nelle librerie, nei conventi, nelle associazioni di volontariato. Madri che sono, pure senza figli. Perché figlio è il mondo di cui si prendono cura".
Alessandra Erriquez
Sono ripetitiva, ogni anno dedico alle "mie persone" e a voi qui queste stesse parole.
Ma esprimono così bene il mio senso di Pasqua che non posso fare altro che riproporle.
Auguri a tutti coloro che ogni giorno non smettono di essere "cercatori di passaggi".
Da parecchio non compaio su questa pagina, un po’ “intossicata” da tante modalità che vedo e sento intorno a me.
Ritorno con un esperimento che ho pensato di fare questa mattina.
Mi sono presa dieci minuti (ebbene si… ne sono bastati solo 10!) per scorrere le proposte di Instagram ed incamerare tutta questa serie di insegnamenti/rivelazioni/suggerimenti.
Praticamente immaginate me alle 5.50, ancora in pigiama, tra il sacchetto della spazzatura da chiudere, le ciotole da dare ai cani che mi saltellano intorno, il letto da far sù e le palpebre da tenere aperte, letteralmente inondata da queste indicazioni che in un minuto, nemmeno, ti fanno pensare di essere totalmente inadeguata e che ti fanno scoprire, però, di avere la forza di un leone perché combatti, vincendola, l’irresistibile voglia di ricacciarti con la testa sotto al cuscino!
Ecco qui, ho segnato tutto perché volevo mettere nero su bianco quel vago senso di fiato corto che avverto ogni giorno in cui mi approccio ad Instagram (dove peraltro, per ca**tà, si trovano anche moltissimi contenuti validi).
Io già alle 6 stamattina sapevo che per me stessa è importante:
-Dormire entro le 22 per ricaricare le mie ghiandole surrenali
-Fare la respirazione quadrata (?)
-Fiorire per me stessa
-Fidarmi della magia di un nuovo inizio
-Essere luce per me stessa e per gli altri
-Cambiare la trama della mia vita
-Fare almeno mezz’ora di movimento durante la giornata
-Dedicarmi al meal prep come non ci fosse domani
-Promettere di fare del mio meglio senza il bisogno di convincere nessuno
-Non paragonarmi agli altri
-Respirare consapevolmente
-Promettere di dirmi più volte al giorno “io sono importante”
-Sorridere
-Prendermi cura della mia bellezza interiore
-Manifestare gentilezza ed essere gentile con me stessa (che detto così non vuol dire un tubo, lasciatevelo dire. Perché se decido di essere gentile con me stessa torno a letto e non se ne parla più)
-Fare ginnastica facciale per prevenire le rughe
-Essere la mia priorità
-Imparare ad attendere ma anche
-Non lasciare che il tempo passi
-Diventare consapevole di ciò di cui ho bisogno
-Fermarmi, sedermi, radicarmi
-Connettermi con madre terra
-Purificare il mio ambiente dalle energie negative
-Agire nonostante l’incomodo e il disagio
-Prendermi l’impegno di interrompere i miei modelli inconsci
-Meditare
-Fare una camminata
-Smetterla di sopportare!
-Non accumulare rimpianti, sofferenze, delusioni, invidia e paura
-Ricordarmi che la vita è molto di più
-Arrendermi al momento presente
-Imparare a lasciare andare
-Pianificare in anticipo per non andare in ansia
-Affrontare la giornata con leggerezza
-Accorgermi che ogni giorno è quello giusto per rinascere
-Non credere di non avere fatto nulla solo perché non sono ancora dove vorrei
-Non credermi foglia se sono albero
-Identificare le sfide e fissare gli obiettivi per superarle
-Festeggiare i piccoli successi
-Sviluppare un dialogo interiore positivo
-Piangere quando ne ho bisogno
-Curare il mio femminile
-Non soffermarmi sul passato
-Non correre mai rischi
-Prendermi le mie responsabilità
-Trasformare le parole in azioni
-Dare un calcio ai sensi di colpa
Questo in 10 minuti, ripeto, 10!
Ovviamente tutto suggeritomi con colori tenui, fiorellini, pennellate di acquerello e atmosfere zen.
Ora, cari miei.
Voi capirete vero che questa pressione ad essere sempre meglio (ma poi bo…) è deleteria?
Sentite quanto, in fondo, sia competitiva?
Quanto ci faccia pensare che “siamo brave/i” se riusciamo in tutto questo?
Sentite quanto la nostra vita, fatta di scooter a cui si buca la gomma, figli malati, mail alla commercialista, chiamate continue, e grane da risolvere, davanti a tutto questo sembri un totale disastro?
Riflettiamoci.
Riflettiamoci perché se ognuno di questi suggerimenti ha una sua grande validità se ben lavorato, sentito, raggiunto (non voglio minimamente sminuire tutto ciò che porta a lavorare in profondità e fare dei cambiamenti se no come potrei fare la terapeuta), la doccia quotidiana di indicazioni “guru” che ci facciamo, invece, è molto spesso dannosa!
Ora non cadrò nell’errore di dirvi cosa farvene di tutto questo, di svelarvi trucchi o miracolosi modi per vivere la vostra vita con gioia e serenità.
Posso però dirvi cosa farò io domani.
Mi alzerò di nuovo alle 5.50 tra i cani che saltano perché vogliono mangiare e combatterò con le mie palpebre. Farò su il sacchetto della spazzatura, laverò le tazze della colazione, che (vi alleggerisco nel caso fosse così anche per voi!) nel quotidiano non è su tovagliette bucoliche e vasetti di fiorellini e darò inizio alla mia giornata.
E si, proverò anche a fare qualcosa di buono per me. Ma se riuscirò sarà perché ho messo a fuoco qualcosa di profondamente mio. E se non riuscirò sarà perché non ce l’ho fatta, perché le cose mi hanno trascinata, perché non ne avevo voglia, perché. Non lo so.
Ma è la vita, è la vita di ognuno di noi e, per fortuna, non è un elenco di azioni/pensieri da DOVER fare per stare bene e prendersi cura di sé!
Che sia meraviglioso ogni cambiamento che desideriamo.
Che sia conquistato in autonomia o con l'aiuto concreto e reale di una persona cara o di un professionista.
Che sia davvero nostro però, e non di nessun "guru" che ci indica come vivere "docciandoci" ogni giorno di frasi ad effetto sotto cui rimaniamo schiacciati e che finiscono per farci sentire inadeguati!
Una riflessione a 4 mani stesa con Arianna, che ormai conoscerete dalle precedenti collaborazioni.
Una riflessione che nasce dall'osservare, talvolta, percorsi in cui si fatica a prendersi la responsabilità di un proprio primo piccolo passo di cambiamento.
Cosa ne pensate?
Riflessioni sul terreno di terapia Avevo già trattato su questo blog la difficile tematica del “se vuoi puoi” relativo ai percorsi di cambiamento alimentare; se avete voglia di spendere 5 minuti...
A chi non è capitato di desiderare fortemente qualcosa? Un traguardo, un obbiettivo, una conquista?
Chi di noi non ha sentito nascere dentro di sé almeno una volta nella vita la fatidica domanda “perché io no”, “perché a me no”?
E allora andiamo in fissa.
Allora rimaniamo inchiodati su quel pensiero, notte e giorno.
E ci domandiamo cosa non vada in noi.
Ci domandiamo se qualcuno ci abbia fatto una macumba, se abbiamo i pianeti contrari o, che è ben peggio, se abbiamo commesso qualcosa per cui veniamo “puniti”, da Dio, dal Karma o da una qualche legge superiore, con la privazione di quel che desideriamo.
E poi ci sono anche le situazioni in cui gli altri hanno ciò che desidereremmo noi: un lavoro, un compagno, una casa, dei figli. E allora spesso crediamo che “loro sì che sono felici”.
Proviamo a leggere queste parole, quelle che vi lascio nell’immagine.
Proviamo a mettere a fuoco che ognuno di noi è nel suo momento di vita, momento che non può essere di nessun altro. Che non necessariamente chi ha ciò che vorremmo noi è felice. E mettere a fuoco questo non vuol dire di certo cercare il “mal comune mezzo gaudio”. Vuol dire renderci conto che quel che vorremmo noi (lavoro, compagno, casa, figlio) nella vita di un’altra persona può avere un altro peso, un altro significato.
Il nostro fiore, se sboccerà, lo farà quando sarà il suo momento.
Suo e nostro.
Abbiamo da quasi due anni la parola “emergenza” che ci risuona nelle orecchie. Forse ci siamo assuefatti fino ad arrivare a non accorgercene coscientemente ma credo che arrivi alle orecchie (e quindi alla psiche) di ciascuno di noi almeno una volta al giorno. Come potremmo anche solo ipotizzare che questo non abbia un impatto su tutto? Quanto corriamo il rischio che questa “emergenza” si generalizzi ad ogni nostro modo di percepire e reagire?
E non parlo dell’importanza centrale delle problematiche sanitarie. Nemmeno della DAD, dell’economia e delle limitazioni. Ognuno di questi punti è un nodo enorme e di una complessità pazzesca. Un nodo sul quale il singolo può certamente incidere ma che non può essere sciolto se non dal collettivo e a seguito di una grande presa di consapevolezza ed un’azione forte e condivisa.
Parlo del “piccolo”, del quotidiano, di come viviamo ogni singolo “normale” ostacolo di tutti i giorni. Di come ognuno reagisce alle difficoltà “normali” che le relazioni ci propongono, agli impegni “normali” che lo studiare o il lavorare ci richiedono, alle piccole o grandi frustrazioni davanti alle quali “normalmente” dobbiamo reagire.
E’ diventato tutto un’emergenza. Un qualcosa che *deve* risolversi subito, a qualsiasi ora del giorno e della notte e attraverso qualsiasi mezzo di comunicazione. Lo avvertite anche voi? Vi rendete conto di agirlo?
E’ un po’ come se questa sensazione di “emergenza” fosse ormai un meccanismo generalizzato con cui affrontiamo le difficoltà. Come se tutto fosse insormontabile: i compiti, le interrogazioni, le responsabilità nei confronti delle nostre relazioni. Tutto genera ansia.
Ecco, se fermandoci un attimo a pensarci ci dovessimo rendere conto che effettivamente ci ha preso la mano un meccanismo per cui tutto ci sembra un problema insormontabile, tutto deve essere affrontato subito, proviamo a lavorarci.
A starci qualche attimo con le emozioni che sentiamo in quel momento.
Non è proficuo “scaraventarle” fuori, cercare “nemici” intorno a noi, reagire convulsamente alle situazioni.
Fermiamoci e domandiamoci se quello che stiamo vivendo è un “sentirsi in emergenza” reale o è un dimenarsi convulsamente che ci difende dall’importanza di renderci conto, invece, che la soluzione vincente sarebbe quella dettata dall’”emergenza di sentirsi”.
I professionisti dell'aiuto, del sostegno, della relazione, devono essere "perfetti"?
Devono essere "risolti" totalmente?
Questi interrogativi sono circolati spesso con due delle mie ragazze che nella vita hanno intrapreso percorsi di formazione per svolgere un domani professioni a sostegno degli altri e che non si sentono mai adeguate perché “se sono dallo psicologo e non sono in equilibrio io evidentemente non posso essere adatta ad aiutare”.
Direi che sia scontato dirvi quanto queste riflessioni mi tocchino direttamente visto quello che faccio ogni giorno e quanto me le riveda ogni volta in cui loro le portano a me.
Immagino che io non sveli nulla condividendo con voi il fatto che noi terapeuti abbiamo vite che sono tutt’altro che perfette! Che poi...quale vita può definirsi perfetta? Da quale punto di vista?
Certo, quello che è fondamentale è che il terapeuta, o chi comunque svolge una professione di aiuto in ambito sanitario o sociale, abbiano più che ben chiaro quanto sia importante “tenersi d’occhio”, lavorare su di sé sempre. Che siano allenati a rendersi immediatamente conto se qualcosa del loro personale interferisce con il loro lavoro. Questo è imprescindibile per poter essere buoni professionisti.
Ma per il resto abbiamo emozioni come tutti. Certo, abbiamo strumenti per sentirle, guardarle, capirle e scegliere come reagire. Abbiamo conoscenze, sappiamo citare autori e meccanismi.
Ma viviamo relazioni, dolori, situazioni e gioie come tutti.
Facciamo a volte pasticci come tutti.
Non sempre reagiamo nel modo più conveniente e non sempre, nelle nostre vite l’orizzonte e la direzione ci sono chiari immediatamente.
Agiamo meccanismi di difesa, ci arrabbiamo se qualcuno ci supera in coda alle poste, abbiamo giornate in cui ci alziamo con il piede sbagliato e non riusciamo a raddrizzarle!
Ma dobbiamo garantire, nei nostri studi con le nostre persone, di essere sempre responsabili di questo.
Questo si.
Ma poi, non è in fondo il nostro essere persone, incasinate a volte come tutti, che ci rende (insieme all’indispensabile preparazione) capaci di entrare in relazione in modo empatico?
Come potremmo capire la rabbia dell’altro se non ci permettessimo di viverla e conoscerla?
Come potremmo capire la paura dell’altro se non ci permettessimo mai di sentire le nostre paure?
Jung diceva “Il terapeuta non può cercare di eludere le proprie difficoltà curando quelle degli altri, come se egli non avesse problemi”. Con lui l’analisi fa un grande salto rispetto alla posizione freudiana che vedeva il terapeuta come una sorta di “specchio opaco” che rifletteva ciò che il paziente esprimeva.
Con Jung passiamo dall’immagine del guaritore senza ferite a quella del “guaritore ferito, che usa le proprie ferite per entrare in contatto con il paziente”. Passiamo da un’immagine di terapeuta più “asettico ed esterno” ad un’immagine di terapia che vede il rapporto tra terapeuta e paziente “come la mescolanza di due sostanze chimiche: un legame può trasformarle entrambe”.
E se il processo terapeutico è il risultato di una trasformazione “chimica” che avviene nella relazione come possiamo pensare che possa esistere un terapeuta “perfetto” che conosce a priori la terapia “perfetta” per i propri pazienti?
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