Dott.ssa Federica Bellingeri - Psicologa e Psicoterapeuta

Svolgo la mia attività online e in studio privato a Pavia e a Milano, presso lo studio IPSI - http

Timeline Photos 10/11/2021

🎧 Sabato 13 novembre, vi aspettiamo per l’evento “Focus on - Il processo di consultazione e cura nei disturbi della nutrizione e dell’alimentazione: un modello integrato” con Giulia Scarpellini e Anna Paladino.

🔎 L’esperienza clinica nel campo dei disturbi della nutrizione e dell’alimentazione, associata alle evoluzioni teoriche e ai dati epidemiologici, ci stimola a sviluppare un pensiero sempre più articolato e complesso in materia. Il lavoro clinico in tale contesto necessita di un approccio integrato che tenga conto delle diverse dimensioni coinvolte nel disagio psichico agito ed espresso attraverso il corpo.

📌 Obiettivo dell’incontro è mettere a fuoco dal punto di vista clinico gli aspetti che riteniamo centrali nel processo diagnostico di consultazione con questa tipologia di disturbi.

👉 Clicca qui per iscriverti e saperne di più: http://ow.ly/fQG250GGPhS

27/10/2021

“Perché solo la vita, in fondo, sa guarire la vita stessa”

21/09/2021

“Non assomigli più a nessuno da quanto ti amo”. Uno dei versi che amo di più di Neruda ma lasciamolo lì un attimo che vi racconto una storia.

Una delle domande che mi fate più spesso in terapia riguarda i narcisisti. Soffro di narcisismo dottoressa? Ma lui è davvero un narcisista ? Ed io come ho fatto a non accorgermi in tutti questi anni che lo fosse e a tollerarlo?

Il narcisismo è una specie di costellazione. E’ un tema spinoso difficile ridurlo data la complessità a un tema adatto per Ig, facile utilizzare scorciatoie di pensiero con il rischio di togliergli dignità. Mi perdoneranno i colleghi ma io ci provo.

E’ un termine così utilizzato e abusato, da così tanti che, sghembi di riferimenti ma dotati di buona volontà, non fanno che creare una terribile confusione e generalizzazione. Sgombriamo il campo: tutti siamo narcisisti e viviamo in una cultura narcisista e, evviva evviva, c’è pure un sano narcisismo.
E allora che cos’è.
E’ una sorta di gentile autoreferenzialità fondata su una traballante autostima, sentirsi così incerto rispetto a chi si è da aver costantemente bisogno di dimostrare che si è qualcuno, essendo ad ogni costo meglio di chiunque altro. In altre parole poiché mi sento così insicuro e non posso mantenere un coerente senso di me ho bisogno costantemente di guardare l’immagine di me stesso per confermare che è questo che io davvero sono.
Così il narcisismo non è come la psicologia ingenua suggerisce sentirsi bene con se stessi e pensarsi meglio di chiunque altro , il narcisismo è sempre fondato su un profondo senso di inadeguatezza.
E quale è la radice in infanzia della grandiosità?
La metà dei narcisisti non sono stati amati abbastanza, e l’altra metà è stata cresciuta con la narrazione di quanto fossero meglio di qualunque altro. Ci sono due forme di abuso: la prima ha a che fare con il campo degli abusi depotenzianti, non essere stati amati abbastanza, chi ci doveva amare ha preferito non farlo.
L’altra forma di abuso è un falso potenziamento. Tu mi capisci meglio di tuo padre, a 5 anni, è una cosa terribile da dire ad un bambino causandogli un falso senso di se, incredibilmente potente.

Rimpolpare la mia grandiosità non è farmi un favore E’ una forma di trascuratezza parentale e di abuso. Tutti noi ci meritiamo di avere genitori che a 5, 6 anni ti considerano responsabile di ciò di cui puoi essere responsabile a quell’età, ma anche irresponsabile sapendoci indicare i limiti ed i nostri sbagli e continuando ad amarci nell’uno e nell’altro caso.
Considerare una persona responsabile ma amarla allo stesso tempo queste sono le fondamenta di una sana autostima. Così imparerai e riuscirai a tenerti in una buona considerazione mentre stai gettando uno sguardo freddo e distaccato suoi tuoi brutti comportamenti, brutte scelte e brutti tratti del carattere . Una sana auto stima è azione.
La cura per il narcisismo è l’amore per se stessi. Un narcisista ne ha davvero poca.

Torno alla questione dell’amore, ricordate la frase di Neruda ?Narciso nel mito non può lasciare la sua immagine, e dietro di lui c’è Echo, che è una donna che lo ama. Ma lui è così coinvolto nel suo riflesso che nemmeno la nota, e mentre lui sospira lei sospira, non ha una sua voce può fargli solo da eco.
Figuriamoci se riuscirà a vederla e immaginate se potrà amarla per quello che è. Se stessa.

05/08/2021

Conoscersi non porta ad amarsi e accettarsi per quel che si è, come se si fosse un’opera finita da contemplare.
Conoscersi significa individuarsi come un racconto in formazione, e sprona a vedere i propri refusi, i doppi spazi e le ripetizioni. Conoscersi significa disporre il testo di sé lungo tutta la vita a un editing coerente, leggero ma costante. Prepararsi a nuove stesure e riletture.
Perché se ti conosci ti editi.

28/07/2021

🎯Siamo felici di annunciare che Regione Lombardia è la prima regione in Italia ad aver approvato la legge per l’istituzione del SERVIZIO PSICO PEDAGOGICO nelle scuole.

🏫 Il servizio prevede l’inclusione della psicologia scolastica negli istituti scolastici lombardi, con il fine di fornire supporto agli studenti, alle famiglie e al personale scolastico, in un’ottica di prevenzione e promozione del benessere.

📃 Per il triennio 2021-2024 la misura è stata finanziata con 2,4 milioni di euro che saranno erogati in maniera incrementale nel corso delle tre annualità e che sono aggiuntivi rispetto ai fondi stanziati dal Ministero dell'Istruzione.

🤝Ringraziamo Gigliola Spelzini Gigliola Spelzini - Consigliere Regione Lombardia, prima firmataria di questa legge, per aver creduto nell’importanza dell’apertura di questo servizio, ma anche per aver instaurato una collaborazione e uno scambio proficuo tra OPL e la Regione, a testimonianza del valore delle reti interistituzionali.

📌L’approvazione di questa legge rappresenta un passo importante per il riconoscimento e istituzionalizzazione di una delle applicazione delle nostra professione nel nostro territorio.

📜 La proposta di legge, approvata oggi, sarà depositata nei prossimi giorni, ed è consultabile qui: http://ow.ly/QE6A50FFmZP

👉🏻 Clicca qui per leggere la notizia: http://ow.ly/7XOA50FFmZO

04/07/2021

“Se ti impegni ce la fai”, “Volere è potere”, “Se non sei felice è solo colpa tua” sono frasi tossiche che sentiamo ripetere continuamente.
Ogni persona è immersa in un ambiente ed eredita condizioni sociali ed economiche che non ha scelto e che può fare fatica a superare.
C’è chi può realizzare facilmente ciò che desidera e chi incontra enormi difficoltà. Ripetiamolo: sforzarsi non basta, la retorica del “se vuoi puoi” non deve essere lo strumento per vincolare ad accettare questa società della lotteria della vita, in cui vince solo chi può permetterselo e, rarissimamente, chi viene dal basso e viene estratto a sorte al solo scopo di far credere che la società sia, in fondo, giusta. Le diverse condizioni di partenza incidono in maniera cruciale sulle possibilità di riuscita, e del resto non è affatto detto che un certo tipo di “successo” sia quello che tutte le persone desiderano.
La retorica vuota e pseudo motivazionale del “se non ce l’hai fatta non ti sei impegnato/a abbastanza” è l’ideologia con cui i privilegiati si puliscono la coscienza, colpevolizzando chi non può farcela.
Perché conta moltissimo la classe di provenienza, il luogo in cui si nasce, i diritti lavorativi acquisiti o negati, le discriminazioni subite o meno.

[Piccola nota personale: per mantenerci abbiamo fatto tantissimi lavori (call center, consegna pizze, babysitter, servizio di sala, e via dicendo); per un lungo periodo abbiamo guadagnato 500 euro in due facendo lavoro editoriale a tempo pieno. In questi anni ci siamo impegnati tantissimo, abbiamo cercato la nostra strada, abbiamo studiato, ma abbiamo soprattutto avuto fortuna, senza la quale non avremmo potuto emanciparci dalla nostra condizione di partenza. Molte persone meritavano e meritano quanto e più di noi. Dimenticarselo o non volerlo vedere significa essere corresponsabili di questa ingiustizia].

16/06/2021

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Ciao, sono Elena Mandorino. Ho conseguito la laurea magistrale in Psicologia Clinica e arricchito i miei studi frequentando corsi di perfezionamento in psiconcologia e psicologia perinatale. Completa la mia formazione clinica il percorso in psicoterapia ad indirizzo cognitivo neuropsicologico.
L’aspetto che più mi appassiona del mio lavoro è il suo potere creativo e trasformativo: credo che ogni percorso terapeutico sia come un’opera d’arte, unica.
Nella relazione terapeutica, ogni storia di vita, ogni sofferenza raccontata trova un luogo da abitare, uno spazio che apre a una maggiore comprensione di sè e dei propri modi di essere.
L'obiettivo è quello di generare nuove possibilità di stare nel mondo e condurre l’esistenza verso una forma migliore e autentica. L’ingrediente principale di ogni esperienza terapeutica è il senso di responsabilità, imprescindibile per il cambiamento: citando il filosofo J. P. Sartre, “Noi siamo le nostre scelte”.
Presso IPSI, svolgo attività in diverse aree d’intervento tra cui infertilità e sterilità, coppie e sessualità.

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07/06/2021

Che il lavoro sia un valore in sé è una forma di superstizione sulla quale si poggia il meccanismo centrale della nostra società: lo sfruttamento dei sudditi.
Che il lavoro nobiliti l’uomo è una bugia utile soltanto a chi si appropria della fatica altrui.
Che il lavoro renda liberi, poi, è assurdo agli occhi di tutti, da quando “Arbeit Macht Frei” ha campeggiato per la prima volta all’ingresso di un lager. Il lavoro è una privazione della libertà, nel migliore dei casi volontaria perché funzionale a uno scopo superiore, ma più spesso obbligata dalla fame.

Perché non è il lavoro in sé a liberare o a nobilitare l’umano ma è il fare esperienza, il misurarsi con il mondo attraverso molti modi tra cui un lavoro, che però non sia svilente e permetta di trovare la propria dimora tra gli oggetti. Spronare i giovani oggi a lavori sottopagati, umiliati, atomizzati, lamentarsi di chi preferisce un reddito universale doveroso a uno sfruttamento disumano è più una forma di vendetta delle vecchie generazioni che un’eredità da raccogliere.
Il lavoro così com’è oggi è un mucchio di rovine del passato che va spazzato via; bisognerebbe lavorare “a” qualcosa, e non soltanto “per” qualcuno. Come ha scritto Arendt in Vita Activa, il pericolo è che la nostra società, “abbagliata dall’abbondanza della sua crescente fecondità e assorbita nel pieno funzionamento di un processo interminabile, non riesca più a riconoscere la propria futilità – la futilità di una vita che non si fissa o si realizza in qualche oggetto permanente che duri anche dopo che la fatica necessaria a produrlo sia passata”.

Solo ricostituendosi come classe lavoratrice, solo svegliandoci dall’incubo che ci vuole “imprenditori di noi stessi” e quindi doppiamente schiavi potremo liberarci dei padroni e mettere il lavoro al suo posto e non al vertice delle nostre vite.

Timeline photos 17/05/2021

[GIORNATA INTERNAZIONALE CONTRO L’OMOFOBIA, LA BIFOBIA E LA TRANSFOBIA: LE PSICOLOGHE E GLI PSICOLOGI CI SONO]

Ancora oggi, solo guardando al nostro paese, gli episodi di discriminazione e isolamento, così come tutti quei casi in cui la violenza psicologica si accompagna a quella fisica, sono ancora davvero troppi. O per meglio dire, oggi non dovrebbero esserci.

📚 Come comunità professionale abbiamo gli strumenti per comprendere come parte integrante delle relazioni con l’altro siano le rotture e come possiamo metterci al lavoro per farle crescere entrando in contatto con la complessità di pensieri, emozioni e motivazioni che le muovono.

💪 Accanto al nostro lavoro di rispetto dei diritti della persona, il Codice Deontologico ci chiede di agire per favorire una maggiore consapevolezza sulla discriminazione delle persone LGBTQ+ e promuovere il dialogo e l’informazione. In questa direzione l’OPL ha attivato un gruppo di lavoro sui temi LGBTQ+ che ha creato il Glossario Rainbow, utile a tutta la comunità e non solo:https://www.opl.it/public/files/17141-OPL_Dossier-LGBT+_singolapdf.pdf

01/05/2021

Auguriamo a tutti i lavoratori e lavoratrici un Primo Maggio senza resilienza.
Il perché lo spieghiamo con questo estratto da ‘Prendila con Filosofia’.

“Ci sono espressioni che entrano nel linguaggio comune e che inizi a usare senza domandarti più quale sia il loro reale scopo e quanto, di conseguenza, ti influenzino. Una delle più diffuse e pervasive è la parola ‘resilienza’, considerata dai più come la panacea di ogni male e la via d’uscita perfetta dai nostri tempi oscuri, complessi e faticosi.
Bisogna impadronirsi della propria esistenza, non farsi sovrastare dagli avvenimenti, riuscire ad affrontare qualunque situazione spiacevole.

Eppure, a guardarlo bene, il concetto di resilienza, così come viene di solito applicato, è la perfetta negazione di questi consigli.
Si tratta, infatti, di un termine mutuato inizialmente dall’ingegneria che ha attraversato la biologia, l’informatica, l’ecologia, la psicologia e che negli ultimi anni ha finito con il descrivere la capacità di resistere agli urti, di tornare a se stessi dopo aver vissuto un trauma o una deformazione. Come i metalli che subiscono manipolazioni ma poi tornano uguali a come erano prima, così devi fare anche tu.
Come gli Sbullonati, quei pupazzetti degli anni Novanta ai quali si infliggevano sadicamente crash test e torture terribili, perché tanto tornavano sempre come prima (pezzo più, pezzo meno), così anche tu dopo ogni ko devi tornare in piedi.

L’idea malsana in questa interpretazione più diffusa del termine è quella di dover tornare a tutti i costi e il più in fretta possibile a una situazione di benessere. Adottarla senza spirito critico rischia di farci assorbire altre istanze: il rifiuto del dolore, della fatica, la mancata volontà di vivere la notte oscura, lo sforzo e l’incapacità di imparare a stare nelle difficoltà. La spinta a non concedersi mai uno spazio di buio e di oscurità: essere resilienti costringe a calcare perennemente il palcoscenico dell’esistenza senza potersi mai permettere il lusso di restare in disparte, di essere inefficienti, imperfetti, rotti. Perché il dolore non deve necessariamente diventare un dono da trasformare.
Talvolta, deve restare dolore, anche e soprattutto perché fa male. Non bisogna mostrarsi sempre più forti delle circostanze, adattabili a tutto, traslando un concetto del mondo fisico in un ideale morale verso cui slanciarsi.
Essere resilienti spesso rappresenta il desiderio che tutto ritorni a un mondo senza problemi, e non offre concrete azioni da compiere per cambiare le cose nel presente.

Il problema è che questo atteggiamento porta, alla fine, a rendersi funzionali al mondo, che può così masticare e scaricare ciò che sei senza rischi e rimorsi: tanto sei resiliente, sai trarre il meglio da ogni cosa. Nulla ti tocca davvero.
E così, a forza di assecondare i colpi della vita, a forza di fingere un piglio stoico senza esserlo davvero, come resiliente diventi semplicemente impotente. Sempre più bravo a rialzarti dopo la caduta. Fa bene, invece, fissare il suolo.
Come spiegano Evans e Reid in Resilient Life, la resilienza è parte del passaggio politico fondamentale da regime liberista a regime neoliberista; un nuovo fascismo con implicazioni disastrose e antiumaniste”.
Molto meglio resistere.

21/04/2021

Sono Sabina Rasia, psicologa, psicoterapeuta ad orientamento psicoanalitico, specializzata nel trattamento di adolescenti ed adulti. L’ulteriore formazione in Neuropsicologia e Psiconcologia e quindi l’avvio di percorsi di cura dentro a malattie invalidanti e disorganizzanti, mi ha permesso di comprendere personalmente e professionalmente quanto la ricerca del proprio benessere rimandi ad una risposta di senso alle dimensioni fondanti il proprio essere. Ho compreso come l’esperienza della perdita sia una condizione intrinseca all’esistenza umana ed un elemento centrale di elaborazione nel nostro lavoro di cura. E’ immergendosi in queste dinamiche che possiamo riavviare quei percorsi trasformativi e generativi, spesso sospesi ed intrappolati nel sintomo-corpo che parla al posto della mente.
Presso IPSI mi occupo del trattamento di disagi psichici e disturbi dell’affettività reattivi a periodi critici di vita quali passaggi evolutivi, crisi esistenziali, perdite e lutti. Svolgo percorsi terapeutici per adolescenti con disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione.

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20/04/2021

Poesia di Patrizia Cavalli.

Quanto può essere difficile ritrovarsi soli con se stessi, a dover scandire il proprio tempo, occupare i propri spazi, decidere per sé secondo i propri desideri, riconoscersi un valore senza la necessità dell’approvazione dello sguardo altrui, progettare il proprio futuro, costruirsi l’esistenza che si vuole vivere, quando non si è abituati a farlo?

14/04/2021

Sono Giulia Scarpellini, psicologa e psicoterapeuta, specializzata in psicologia psicoanalitica del Sé e psicoanalisi relazionale.
La psicoanalisi relazionale e la Teoria dell’Attaccamento mi portano a valorizzare il sentire derivante dall’incontro con la persona nella molteplicità delle sue dimensioni per validarne il significato individuale e intersoggettivo. I risultati delle ricerche mi insegnano a stare sul momento presente e a considerare i contesti affettivi impliciti in esso emergenti come occasioni di trasformazione dell’esperienza individuale e relazionale.
In IPSI mi occupo di disturbi della nutrizione e dell’alimentazione. Lavoro con giovani pazienti e le loro famiglie nel tentativo di co-costruire spazi relazionali creativi in cui riconoscere ed esprimere gli aspetti del sé disconosciuti, ristabilire connessioni tra corpo e mente, tra Sé e Altro, e incoraggiare così l’esperienza della propria soggettività nel mondo.
Ciò che più mi affascina del mio lavoro è essere testimone del potenziale trasformativo e di coesione del senso di sé che si cela sotto la sofferenza.

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12/04/2021

LA RICERCA DEL SENSO

Questo fine settimana a lezione abbiamo ragionato sulla necessità umana di trovare un senso alle nostre esperienze, alle nostre scelte, alle scelte dei nostri cari, alle nostre sofferenze. Cerchiamo di dare un senso al nostro malessere, alla nostra tristezza, alla nostra ansia, alla fine di una relazione. È normale, è umano ed è necessario, non è superfluo, non è inutile. La domanda di senso ci interpella sempre e comunque, ma non sempre abbiamo le parole per rispondere. Alle volte abbiamo parole di colpa, di rimprovero, che generano invidie, rancori e non fanno che intensificare il dolore e la sensazione di prigionia nell’immobile. Incolpiamo noi stessi, i nostri amici, i nostri partner, ma così facendo finiamo per sentirci impotenti, terrorizzati dalla paura che l'avve**re non sia che un ripetersi delle sofferenze che abbiamo vissuto e che stiamo vivendo. In che modo può aiutare la terapia?
Quello che è successo non si può cambiare, non si possono modificare i fatti, ma il senso di ciò che è accaduto non è fissato una volta per tutte, non è immutabile. Le nostre azioni possono essere interpretate e significate altrimenti, alla luce della nostra storia di vita e dei nostri modi di entrare in relazione con gli altri. Dare un senso nuovo al nostro passato, alla nostra storia, può sgravare dal senso di colpa, può alleggerirci dal peso di un passato diventato fardello e dalla paura dell'eterno ripetersi del male.
La terapia non consegna al proprietario un'esistenza privata dalla sofferenza e dal dolore, il soffrire fa parte del vivere ed è comune ad ogni situazione umana, ma risignificata. Il senso nuovo che emerge dal lavoro su di sé deve permettere di sentirsi protagonisti della propria vita, capaci di modificare il corso degli avvenimenti, di fare altrimenti, di entrare in relazione con gli altri in una modalità costruttiva, di essere liberi di sperimentarsi in una esistenza non più imprigionata nella tristezza.

07/04/2021

C'è una differenza fondamentale tra l'esperienza della e il fatto di sentirsi soli. La solitudine è un'esperienza in cui siamo sempre in contatto con noi stessi e anche con le immagini delle persone a noi care, che conserviamo dentro di noi; non siamo quindi davvero soli. Quando ci sentiamo soli, invece, percepiamo l'assenza di questi legami: la capacità di poterli costruire rappresenta uno degli obiettivi fondamentali del processo terapeutico.


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Photos from Dott.ssa Marta Marabelli's post 27/03/2021
25/03/2021

La trasformazione di sé e dei propri modi di entrare in relazione con l’altro verso una forma più autentica, che non genera più sofferenza e patimento.
La cura, sciogliendo i nodi che immobilizzano il dive**re della vita, rende liberi

Potrebbe sembrare una domanda banale, ma che cos'è la psicoterapia? Spesso si pensa che l'obiettivo di un percorso psicoterapeutico sia quello di conoscere meglio se stessi; questo è in parte corretto, ma il fine ultimo è in realtà quello di innescare un processo di cambiamento nella persona e di apprendere nuove modalità di relazione e di azione. Queste saranno più funzionali e adattive di quelle adottate in precedenza e contribuiranno al miglioramento del benessere dell'individuo. Un altro obiettivo del processo psicoterapeutico è quello di ridurre i meccanismi di funzionamento disadattivi, che contribuiscono a mantenere la situazione di sofferenza o di impasse in cui si trova il paziente.


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15/03/2021

Non siamo diventati migliori nell’ultimo anno, semmai ci siamo fossilizzati ancora di più nella nostra visione del mondo, rifiutando la complessità delle cose.
Un adolescente non può dire di stare male in DAD, perché significa che non capisce che sono morte centomila persone; chi fa smartworking non può parlare di salute mentale, perché non ha corso i rischi di chi continuava a lavorare rischiando il contagio.
Raccontare la propria condizione è impossibile, perché ci sarà sempre qualcuno che sta peggio, e ci sarà sempre chi ti dirà che non hai diritto di dire come stai, perché il tuo dolore non ha valore.
È un’ottima strategia per allontanarci gli uni dagli altri, per non vedere che stiamo vivendo un lutto globale, una condizione di sofferenza psicologica, spirituale, fisica, economica, sociale, culturale.
La gara a chi sta peggio si basa su un modello gerarchico, e creare gerarchie e classifiche è il modo peggiore per uscire da un fenomeno globale che sta attaccando ogni aspetto della nostra vita.
L’alternativa non è mettere tutto sullo stesso piano, perché la complessità non è un livellamento e chi è morto o chi continua a lavorare in fabbrica, in ospedale o alla cassa del supermercato non vive le stesse difficoltà di chi fa lavoro d’ufficio da casa.
Ma una storia non esclude l’altra.
Guardiamo tutto insieme, non escludiamo i racconti e i vissuti, smettiamo di dire a qualcuno che la sua storia non ha dignità.
Smettiamo di creare poli opposti e allontanarci, guardiamo le criticità, le contraddizioni e i dilemmi di questo tempo, altrimenti sarà un crescendo di disperazione e violenza sociale.

Mobile uploads 08/03/2021

Può succedere che il con il tempo il significato di una ricorrenza sbiadisca.
Può succedere quindi che un giorno importante come questo diventi la br**ta copia di festicciole da cioccolatini e mazzetti di fiori comprati in fretta al supermercato.
Può succedere.

Era il 1946 quando in Italia si riprese a celebrare la "Giornata Internazionale della Donna" dopo una pausa dovuta alla guerra. L'8 marzo non era un anniversario, non c'era nessuna ricorrenza o avvenimento da ricordare, solo una data scelta fra tante per puntare l'attenzione sulle rivendicazioni salariali e sociali delle donne, e sul lungo percorso che ci stava portando a guadagnare spazio in un mondo gestito e governato solo da uomini.
Una "festa" politica, più vicina al primo maggio che a san valentino.
Non era un punto d'arrivo. All'epoca esisteva ancora il delitto d'onore, non c'era la parità di diritti fra i coniugi, non esisteva una legge che sancisse la parità retributiva tra uomini e donne, e se venivamo violentate quello che si compiva non era un reato contro di noi, ma contro la morale.
Però l'aria cambiava. Si sentiva. Si sperava.
E bisognava mettere un picchetto prima di raggiungere la cima. Un punto sotto il quale non scendere.
E così si stabilì che l'8 marzo ci saremmo tutti ricordati che i diritti delle donne erano un tema attuale e sul quale si doveva tornate a tornare ancora, e poi tornare e tornare.
Serviva un fiore, qualcosa che simboleggiasse la ricorrenza, e furono Teresa Noce, Rita Montagnana e Teresa Mattei a proporre la mimosa.
Tre donne comuniste, tre donne della resistenza, tre donne per cui anche una come me, che manca completamente di spirito patriottico, si sente fiera di essere italiana.
Per far passare la proposta, Teresa Mattei arrivò a inventare che secondo una leggenda cinese, la mimosa era il simbolo della femminilità.
Una frottola che funzionò perfettamente e che fece preferire la mimosa alla raffinatissima e costosissima orchidea. Se Teresa Mattei (partigiana in tempo di guerra e, di lì a qualche tempo, più giovane eletta all'Assemblea Costituente) si era spesa tanto perché venisse adottata la mimosa, era perché si trattava di un fiore povero, che tutti avrebbero potuto recuperare in campagna e donare. Un fiore presente e invadente, che lussureggiava per le strade. Profumo e colore.
Negli anni a ve**re, la mimosa divenne un simbolo sovversivo, chi la indossava disturbava l'ordine pubblico ed era vietato venderla in strada.
Averla addosso significava combattere, dire io sono qui e pretendo di avere quello che mi spetta.
Io non arretro.
Le donne se la scambiavano per celebrare le conquiste, certo, ma anche per stringere un'alleanza di intenzioni.
Sono passati tanti anni.
Alcune cose ce le siamo dimenticate.
Può succedere.
Ma la storia è sempre lì a indicarci la strada.

Quella fotografata è una pagina di “Taglia e cuci”, graphic novel di Marjane Satrapi.

05/03/2021

Alcuni pezzi random: la vergogna, l’ansia, il mi guarda e chissà cosa pensa, la mia amica è più bella di me, stasera non esco perché non sto bene ma in realtà sono i vestiti che non mi stanno bene, i pianti allo specchio, la sofferenza, vorrei essere invisibile, la paura del giudizio, stai dritta e petto in fuori, le cosce che fregano, la cellulite, l’altezza mezza bellezza, i brufoli, i disturbi alimentari, chi bello vuole apparire un po’ deve soffrire, HIIT, Tabata, i peli, l’insicurezza, come tu mi vuoi,l’apparenza del corpo che apre o chiude possibilità, lo spettro della vecchiaia, le rughe, le t***e che non stanno più su (su dove?), la paura di essere invisibile, la dissezione del corpo vivo.
L’eterna lotta contro il proprio riflesso nello specchio e negli occhi degli altri, lo sguardo giudice del sé e il verdetto è sempre lo stesso: vi dichiaro inadeguati! E così la validazione di me come persona passa attraverso il mio corpo, esposizione itinerante del sé. Una vita in guerra, una guerra persa che può farci solo vincere qualche piccola battaglia, una carneficina di esistenze, quanta fatica, e se si potesse invece essere liberi?

E' possibile riuscire a litigare meglio? 04/03/2021

E' possibile riuscire a litigare meglio? Esploriamo le tre dimensioni nascoste dietro alla maggior parte dei conflitti di coppia e come gestirli. La tua battaglia di coppia non riguarda però ciò che pensi sia. Cosa succederebbe se facessimo una pausa e lavorassimo insieme per capire cosa ci sta accadendo?

17/02/2021

Body shaming, fat acceptance, diet culture, fat shaming, grassofobia, body neutrality, body positivity, fat talk e altro ancora: un mondo di conoscenze che nel 2021 sono necessarie.
Vi siete mai interrogatə sull’accezione negativa insita nella parola ‘grasso’? Grasso è brutto, è sporco, non va bene. La maggior parte di noi ha interiorizzato a tal punto lo stigma per il grasso da non accorgersene nemmeno più, mettendo in atto tutta una serie di microaggressioni inconsapevolmente. Si disprezza il grasso e di conseguenza chi è grassə.
“sei bella di faccia”: chi ha ricevuto questo complimento lo sa che non è un complimento, perché si ok sei bella di faccia, ma la tua bellezza si ferma lì. È incredibile quante siano le discriminazioni nei confronti delle persone grasse, gli sguardi di disgusto e giudizio che devono sorbirsi tutti i giorni, la fatica nel potersi vestire come si desidera dando per scontato che se sei grassə devi nasconderti perché non vai bene, i problemi di accessibilità, le possibilità che vengono a mancare. La società che decide per te, perché decide che in un mondo per magrə il tuo corpo non va bene. Una tra le tante frasi del libro che mi ha colpita è “i nostri corpi, così come sono, sono sconvenienti. Sempre.” Caspita se è vero: siamo bombardatə ogni giorno da consigli su come apparire al meglio, ringiovanire, eliminare la cellulite e i kili di troppo, far emergere il lato migliore di noi. Il nostro corpo prima di noi, carne da mortificare. Se siamo magrə siamo più bellə, siamo più delicatə, siamo più seriə, siamo più intelligenti. Per quanto tempo nei film e nelle serie tv il personaggio grasso veniva descritto come goffo, simpatico, divertente, e basta? Come se non potesse esserci altro, una intera identità ridotta al grasso corporeo. E poi i giudizi, i consigli non richiesti, le critiche, il dare per scontato che se sei grassə sei malatə.
Quanta sofferenza, quanto dolore, quanta rabbia emergono leggendo e approfondendo queste tematiche. Vi chiedo di riflettere con me: è proprio questo il mondo che vogliamo?
Non sarebbe meglio un mondo in cui ogni corpo è valido e merita rispetto? Come fare per cambiare la situazione?

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