Impossible Yoga

Impossible Yoga e’ una piattaforma per praticare e condividere nozioni sullo yoga e sui suoi margini Ambrogio) e online. La lezione di prova e’ gratuita.

I corsi di Impossible Yoga, tra Vinyasa Flow (Yoga Dinamico) e Hatha Yoga, si tengono presso Il Centro Yoga Mandir, Via Circo 18 (a due passi da S. Fasce orarie dal 17 settembre 2024:
Martedi’ ore 13-14 (in presenza e online)

Le pratiche settimanali incrociano tecniche dalla testualita’ classica alle piu’ contemporanee tecniche di movimento corporeo. Le lezioni si svolgono in piccoli gruppi, ques

SEMINARI E INCONTRI | Yoga Mandir 11/09/2024

👉Martedì 17 settembre ricomincia il corso di Vinyasa Yoga presso il Centro Yoga Mandir in Via Circo 18! Nuova sede! Lezione di prova gratuita.

💪Inoltre, potete ve**re a conoscere le attività del Centro agli Open Day di giovedì 12 e venerdì 13 settembre (Open Day di Vinyasa, venerdì 13 alle ore 13)

VI aspettiamo!

📨Per info e prenotazioni, trovate i contatti sul sito:

SEMINARI E INCONTRI | Yoga Mandir OPEN DAYS E SEMINARI SEMINARI E INCONTRI Per il 2023/2024 stiamo mettendo a punto un calendario di incontri monotematici di approfondimento quali Yoga per la donna, Danzaterapia, Meditazione e altri temi riguardanti il benessere. Per rimanere aggiornato iscriviti alla nostra newsletter. iscriviti al...

Le sottili relazioni tra Yoga e Teatro | Incontro con Benedetta Panisson 04/12/2023

LE SOTTILI RELAZIONI TRA YOGA E TEATRO | INCONTRO CON BENEDETTA PANISSON

https://scatolaemozionale.blogspot.com/2020/12/le-sottili-relazioni-tra-yoga-e-teatro.html?fbclid=IwAR2Hsy5VD_RI2O09-yYJCpclx2b3UaIIXKgyQ85nOqcpgU-GlYYuU8WK230

Le sottili relazioni tra Yoga e Teatro | Incontro con Benedetta Panisson Il nostro quarto incontro per le sottili relazioni tra yoga e teatro mi ha portato da Benedetta Panisson , artista visiva e insegnante di y...

04/12/2023

Dagli Archivi di Impossible Yoga

Glutei e spiritualità
November 29, 2019

In questa evidende trasformabilità degli yoga contemporanei possiamo fare a meno della parola spiritualità senza sentirsi, scivolando ancora una volta nel giochetto del giudizio delle morali, incompleti?

Si’, talvolta facciamo a meno della parola spiritualità. Una scelta, me ne rendo conto, parzialmente fuori dal coro, ma in tutta onestà in linea invece con i cori di coloro che praticano, studiano e insegnano yoga e che si interrogano su quanto oggi, effettivamente, su quel tappetino, vi sia della nozione fluttuante di “spiritualità”.

Ad occhio, quando si nomina spiritualità davanti ad una classe di praticanti, si presuppone frettolosamente, e con prassi universalizzante, o omologante, che una persona abbia uno spirito, sfilandole dalle mani quella piccola libertà che concede ad un individuo di non avere uno spirito, ad esempio, di essere su di una via del tutto intima per cercarlo, o di averlo e di non volerlo condividere durante una lezione su di un tappetino, in cui maggiormente ci si esercita muscolarmente, a livello respiratorio, e di concentrazione.
Se a guidare la classe e’ un/una insegnante di yoga, e non un guru, o una guida spirituale iniziata o con una preparazione ad hoc, oggi, le domande da porsi a riguardo sono molte. Maggiormente nel contemporaneo un/una insegnante yoga ha preparazione fisica in relazione ad asana, esercizi respiratori, dinamiche fisiche di movimento, ha inoltre preparazione storica in relazione alle testualita’ yogiche del passato, sa dunque quale ruolo abbia giocato lo spirituale nella formazione storica di quello che noi oggi ancora chiamiamo yoga, e non dovrebbe avere alcuna difficoltà nel riconoscere le profonde differenze tra cio’ che si studia nei testi del passato e cio’ che pratichiamo oggi.

Solitamente, messa tra parentesi la spiritualità, alcuni si chiedono “E allora, cosa stiamo facendo su questo tappetino anti-grip?

Una piccola cosa importante: ogni qualvolta appoggiamo i nostri piedi su di un territorio antiscivolamento, complice l’invenzione del mat, in cerca di certezze e verità date, perdiamo la nostra capacità di muoverci in territori scivolosi, soli o in compagnia, senza verità certa, veniamo meno della nostra possibilità di essere vorticosi, di sapere stare nelle nostre vritti, come direbbero in sanscrito, di scivolare via da quanto pensiamo di noi stessi, o di quanto il sociale pensa di noi. Ecco perché sui nostri tappetini e leggins ci spalmerei, ad inizio di ogni lezione, vaselina, od olio. Che tra l’altro sarebbe anche un ottimo esercizio per i muscoli posturali.

Si impara a tenere i piedi a terra, a valutare gli indici di buona pratica, trasmessa o ricevuta. Se questa a fine lezione, produce piccoli effetti, sensazioni, segnali di rilascio e sgravo, conquiste di piccole forze, depensamento, volontà di sapere, una piacevole sensazione di leggerezza, sugli arti, schiena, cassa toracica, sul meccanismo sottile della respirazione, il praticante ha il sorriso sulle labbra. E anche l’insegnante. In sintesi, se dopo una lezione ne usciamo contenti, avete praticato una buona pratica e il/la vostro/a insegnate e’ bravo/a.
Provocare o provare contentezza e sollievo è un qualcosa di meraviglioso.

Non vi è, a mio parere, alcun bisogno di mobilitare nozioni quali spirito, spiritualità, lavoro su se stessi, miracoli, basta godere degli eventuali effetti benefici, per lo piu’ a sorpresa, e compredere a fondo come consolidarli senza attaccamento. Lasciando il resto all’intimà del praticante.
Spiritualità, come sessualità, scelte alimentari, ogni forma di credo, sono parte della sfera privata del praticante, e solo questa/o sceglie semmai se condividerli o meno, per bisogno di consiglio o chiarimento con la/il propria/o insegnante. O se non altro credo sia questa la struttura elastica che si e’ creata, modificata, andata formando dagli yoga medievali a agli yoga attuali, intorno a quello che oggi, forse frettolosamente, racchiudiamo nella parola yoga.
Io direi che insegno dinamiche di movimenti corporei e respiratori, che mi hanno insegnato i miei maestri, che continuo a studiare e aggiornare, e rientrano per una serie di elementi in quanto oggi definiamo come asana-based yoga, ovvero le nostre pratiche su tappetino.
Non siamo per niente guide spirituali, e maggiormente non ne abbiamo le competenze, culturali o religiose che siano, se non altro per quanto mi riguarda. Questo tutela noi insegnanti, defininendo nel contemporaneo il nostro ruolo, e i praticanti dal non incontrare sedicenti guru.

Vi sono gerarchie, appiccicate ai nostri tessuti connettivi, che fatichiamo a rilasciare.
Tra queste, quella tra corpo e spirito.
Che poi, corpo e spirito, altro non sono che due nozioni tra le tante, ovvero produzioni culturali, anche 2000 anni fa. Dico che anche 2000 anni fa vi furono esseri umani che si misero a definire, secondo loro e secondo quanto culturalmente e socialmente forniva loro la loro stessa epoca, cosa potesse essere il corpo, tanto quanto lo spirito.
La bellezza di nozioni come corpo o spirito probabilmente sta proprio nella loro infinita, sempiterna variabilità.
In alcune tradizioni cultural-religiose si stabilisce inoltre, reiteratamente, che tra corpo e spirito vi sia, magicamente pre-esistente alle forme di vita biologiche e pensanti, come l’acqua pre-esiste ai dinosauri, una gioco di forze imperituro ed irrazionalmente necessario, tra corpo e spirito. Una lotta.
E che questa lotta, snervante e corrosiva, meriti un nostro costante lavoro di ri-bilanciamento, ri-allineamento, ri-armonizzazione, tra cio’ che si presuppone materia e immaterialità.

Tutte parole abusate nei nostri centri che, come sopra, presuppongono che noi poveri umani, in quanto tali, non siamo altro che fatti per vivere in una gerarchia in cui il capo è lo spirito, il subordinato è il corpo. Tutto il resto non è che faticosa routine mal ricompensata.
Lavoriamo in attesa della retribuzione, pratichiamo in attesa di siddhi, ottenimenti, poteri, liberazioni.
Fortuna sui nostri scaffali vi è sempre un testo di Karl Marx, a fianco all’Hatha Yoga Pradipika, che ci motiva e lascia comprendere con maestria perché mai, nelle pause dai nostri lavori, lavoriamo pure su noi stessi.

E allora, poi, andiamo a fare yoga. Li’ dove, dicono alcuni, lo spirito padrone e il corpo subordinato finalmente si uniscono. Ma non è neppure cosi’, perché quando corpo e spirito finalmente si uniscono nella pratica yoga cio’, ironia della sorte, non avviene per un banale principio di omeostasi, per sfinimento reciproco, o per attrazione o amore, di corpo e spirito intendo, ma l’unione è un vero e proprio lavoro. Si uniscono, ci dicono, ma per unirsi hanno bisogno di prescrizioni, tecniche, indicazioni, un testo antico e dal sapore alchemico. Il quale tra l’altro, nella maggior parte dei casi storici, parla di un corpo maschile tutto intento a domare o risvegliare poteri femminei nel suo stesso corpo.

Abbiamo fior fior di religioni che sostengono di liberare lo spirito dalla gabbia-corpo, non dovrebbe neppure risultarci poi cosi’ lontano Patanjali e il suo astensionismo da questo corpo briccone.
Non mi risulta vi sia, allo stato attuale delle cose, una religione in cui, chesso’, ad esempio, sia lo spirito a ingabbiare il corpo.

Mobilitiamo, in forma di unità anticrisi, un grande pensatore del novecento, Michel Foucault: e se a ingabbiare la nostra idea di corpo, di corpo di carne, calore, muscoli, piacere, fosse proprio la nostra idea di spiritualità, trasparente, trascendente, incorporea, pulita?
Un bel ribaltamento, direi, e un ringraziamento a questo grande filosofo che ha attraversato in lungo e in largo funzioni ed effetti di discipline e dispositivi culturali su noi umani.
Ci piaccia o meno, quando pratichiamo, se pratichiamo su tappetino, e se quel che pratichiamo con i corpi lo chiamiamo yoga, di questa riflessione, dobbiamo prenderne atto.
Cerchiamo dunque delle crepe in cui fare leva, per avere il sorriso sulle labbra, e una piacevole sensazione addosso, allo spirito o al corpo, come preferite, a fine lezione, in ogni caso.

Ho pero’ ben chiara in me una reazione urticante, e surriscaldante, ogni volta che nel contemporaneo una comunicazione su di una pratica yoga prende le forme un poco folkroristiche, e il piu’ delle volte a tal punto certe da smascherare incertezza, del claim pubblicitario che suona come “lo yoga fa bene al corpo, ma soprattutto allo spirito” o anche, nella formula piu’ incalzante ed esclusiva “lo yoga non c’entra nulla con il corpo, lo yoga è una pratica spirituale“.
La comunicazione è subdola e va stanata, soprattutto se lo diciamo con un tappetino antiscivolo tra noi e il mondo, e lo diciamo qui, e non nel 1100 in quell’India lontana che pero’ oggi siamo tutti portati a sentirci in tasca.

Una gerarchia è un complesso di strutture o di persone che compongono una forma regolata secondo il principio della subordinazione dell’inferiore alle autorità superiori.
Tra queste sento, io come voi, ancora attualissima nei centri in cui pratichiamo, una certa subordinazione del corpo allo spirito, qualsiasi cosa esso sia in qualsivoglia tradizione cultural-religiosa.
E tuttora non la capisco, onestamente, pur, ma forse dovrei direi grazie, all’insegnamento dello yoga, non capisco questa subordinazione del corpo all’autorità invisibile e penetrante dello spirito.
Ci dicono, e ce lo dicono spesso “Adesso ci sono tutte queste ragazze muscolose, che fanno acrobazie, guardate cos’e’ diventato lo yoga. Ma qui da noi invece lo yoga e’ un lavoro spirituale, invece.”

Diro’ una cosa alquanto inattuale, me ne rendo conto, e forse relativamente condivisibile: sono grata allo yoga anche perché è grazie a questo che mi sono sbarazzata del bisogno di dire spiritualità, e a dirla tutta, è grazie allo yoga che non so neppure dove inizi e finisca il corpo.

Godiamoci le nostre pratiche, dunque e comunque, e non sentiamoci scemi se siamo portati a conoscere i nostri bicipiti, polmoni, quadricipiti, occhi, intestini, sfinteri, orifizi, orecchie, mani, piedi, sudore, scoprendo che prendendoci cura di parti del corpo che risultano recondite, basse, viscerali, ben lontane dalla nostra nozione di spiritualità, ci sentiamo un poco piu’ leggeri.

Perche’ forse è proprio quanto ci risulta lontano dallo spirito, se proprio lo spirito dobbiamo nominare, che merita la nostra attenzione e cura.

Non stupiamoci, io dico infine, della spiritualità dei glutei.

04/12/2023

Dagli Archivi di Impossible Yoga

Asana. Selfie. Condivido. Una piccola riflessione sull’immagine degli yoga
March 20, 2019
Asana. Selfie. Condivido.

M’intenerisco sempre quando giocando insieme ai bambini, qualcuno di loro comincia a cantilenare “pure io lo so fare, guardami, guardami, pure io lo so fare, pure io lo so fare, pure io lo so fare, guardami”.

Nei cuccioli umani e animali c’e’ il bisogno, essendo vistosamente piccoli, dello sguardo dei grandi, per essere insieme, per strutturare relazioni, per comprendere se possono o non possono, per gratificazione e spinta verso la crescita, l’avventura, l’autonomia, anche muscolare.
Il valore dello sguardo, il gioco di sguardi, il guardare e l’essere guardati e’ relazione estetica, dei sensi con il mondo, con gli altri, l’attrazione, e’ prassi di conoscenza e per certo non si limita ai piccoli, anzi, si moltiplica, modifica, sviluppa lungo tutto l’arco della vita.

Il caso vuole, che quel piccolo che dice “pure io lo so fare, guardami, guardami, pure io lo so fare” e che stuzzica la mia simpatia e sguardo, si sia irrimediabilmente sovrapposto a qualsivoglia selfie scattato e postato da qualcuno in un asana. Pure di me stessa.

Sono fotografa e insegno yoga, che tentazione, e che incrocio malposto e inutile di tecniche. Eppure ogni qual volta mi pongo nella condizione di ri-produrre un’immagine di me stessa in qualche asana, con l’intento di fare un tutorial, di promuovermi, di mostrare, penso che ogni forma di ricerca di approvazione, di sguardo mediato dal mezzo e dalla distanza generata dal virtuale, poco c’entri con quel senso di intimita’ nella pratica che sento a me affine.
Ma questo non e’ esaustivo.

Poi penso che comunque mi mostro ai miei praticanti durante le lezioni frontali, che spesso guardo video di pratiche online, per aggiornarmento e osservare tecniche di insegnanti lontani, talvolta pratico lasciandomi guidare da qualcuno che stimo, e mi sento a tratti appagata, a tratti incerta su cosa pensare di questo flusso oggi inarrestabile di immagini e immaginari sulle pratiche yoga. Sono cresciuta con maestri in carne e ossa, davanti ai miei occhi, vicini, presenti, per anni e anni. Ho gratitudine nei loro confronti.

Per certo, per rendere un poco piu’ piccante questo contributo, e’ necessario fare una breve analisi, in stile visual culture, intorno alla rappresentazione, e alla rappresentativita’, dello yoga.

Come non mai, viviamo nell’epoca del visivo.
Susan Sontag, grande intelletuale e storica della fotografia, narrava che un uomo medievale vedeva, si presuppone, non piu’ di 500 immagini nell’arco di tutta la sua vita. Lo scrive negli anni ’70. Sosteva che secondo i suoi studi, all’epoca, ovvero negli anni ’70, una persona ne vedeva di media 500 ogni giorno. E non c’era internet. Possiamo immaginare quanto questa cifra si sia moltiplicata oggi, nel 2019. Quante immagini vediamo quotidianamente? E quante, nell’epoca della fotografia da tasca, ne produciamo? E quante di queste sono di noi stessi?

Ma questo flusso, per quanto ci piaccia l’arbitrarieta’, e il lasciarci andare ai tempi che corrono, alle mode, alle correnti, non e’ per nulla arbitrario.
Se domani le star californiane dello yoga contemporaneo promuovessero una campagna in cui risulti un povero scemo se ti fai una fotografia o un video mentre pratichi, da domani stesso i flussi di immagini intorno alle pratiche, diminuirebbero drasticamente?
Boh.
Per certo potevamo immaginare che, quando una quindicina di anni fa, lo yoga incontro’ il web, e poi il selfie, sarebbe stata solo questione di attimi, o di scatti.

Anche perche’ chi ha abitudine al selfie, mentre sorride, mentre mangia, mentre viaggia, mentre cammina, mentre solleva pesi, mentre m***a la bici nuova, mentre festeggia con amici e amiche, non vedo perche’ si dovrebbe trovare nella scelta, a questo punto immotivata, di autoritrarsi mentre fa qualsiasi cosa, tranne quando pratica yoga.
A quel punto, ecco, forse la scelta risulterebbe un poco esoterica.
Si rischierebbe di cadere nel misunderstanding di ritenere lo yoga un qualcosa da nascondere, e ci sono pure dei testi medievali in sanscrito piuttosto significativi a riguardo.
Ma si cadrebbe soprattutto in una trappola grottesca: mostro tanto di me, ma tendenzialmente non mi faccio un selfie quando sono triste, quando provo dolore, quando sono brutto, quando vomito e faccio c***a, quando faccio sesso (anche perche’ non si puo’ legalemente tranne che in alcuni siti) e, quando faccio yoga.
A quel punto, un patatrac.
Niente, mi tocca farmi un selfie in hastasana, se no non sanno che faccio e insegno yoga.
E’ il caso proprio di Impossible Yoga, per tirarmi una zappata sui piedi.
Ho messo quella miniatura in hastasana negli header perche’ ho pensato che le parole Impossible Yoga, senza un asana degno di un giullare di corte, e per di piu’ su sfondo grigio, e senza alcun loto, fossero un poco “spostati”.
E comunque, quando ho scattato quella foto, ho pensato “guardami, guardami, pure io lo so fare”.

Forse e’ questione di netiquette yoga?
La netiquette e’, per definizione, la network (inglese) etiquette (francese). Cito wikipedia: un insieme di regole informali che disciplinano il buon comportamento di un utente sul web. Ma direi che la netiquette qui non c’entra.

Nessuno che si fa selfie mentre pratica yoga ha intenti malevoli, forse a volte un poco di cattivo gusto, vanita’, ma quest’ultima non e’ negativa, forse a volte qualche errore tecnico che ti viene voglia di toccare il monitor per aggiustarli, a volte sono talmente belli/e e muscolosi/e da farmi pensare completamente ad altro.
Per chi di voi non lo sapesse sono almeno 10 anni che Yoga e’ divenuto una categoria dei maggiori portali di p***o online. Ce n’e’ per tutti. Ho trovato anche li’ dei vinyasa piuttosto notevoli.

A parte questa parentesi hot, mi viene da dire che nessuno che si ritragga mentre pratica e condivide sui social fa del male a nessuno. Tranne in quei casi in cui e’ vistoso che si stanno facendo del male da soli, e questo puo’ comportare un rischio indiretto per il praticante inesperto che osserva e poi riproduce sul suo corpo, da solo e senza insegnante dal vivo.
La fretta di mostrarsi online nei neo-insegnanti prevarica talvolta la comprensione di quel che si sta facendo, e di cosa puo’ accadere mostrando qualcosa di compromettente per la salute dei muscoli se mal mostrata o mal narrata.
Ma onestamente capisco anche questo, e lungi da me sbacchettare sconosciuti. Semmai, deformazione professionale, mi viene da scrivergli in privato, e dire che cosi’ creano troppa pressione alle vertebre lombari, e che l’interno dei gomiti e’ meglio ruotarlo leggermente verso l’interno evitando quell’iperstensione dannosa per l’articolazione, e che l’esposizione della luce va presa sul corpo e non sulla finestra alle loro spalle. Ma ovvio non lo faccio mai per davvero.
Ci sono d’altra parte migliaia di ottimi tutorial on line, ma si deve avere un certa esperienza per distinguerli, e selezionarli.

Se affondiamo nei testi classici del passato yoga non e’ per nulla semplice comprendere se nelle pratiche, nelle meditazioni, nei rituali, negli ascetismi eremitici, vi fosse qualcuno a osservare, a scorgere, a sbirciare, ma per certo sappiamo vi fossero gli occhi del maestro sui propri adepti, che ogni protocollo rituale amplificava il suo effetto nel manifestarsi, nel lasciare traccia di se’, che se oggi esiste ancora qualcosa che chiamiamo yoga e’ perche’ questo e’ stato trasmesso testualmente, nelle tradizione orale, negli immaginari, nelle rappresentazioni visive, la statuaria e il disegno a precedere l’epoca della fotografia in pellicola, e poi il digitale. Se lo yoga in epoca coloniale ottocentesca ha cominciato ad arrivare in occidente e’ anche grazie all’avvento della fotografia.
Si fotografa lo yoga da piu’ di un secolo, anche nella stessa India.
Nella cultura yogica, all’epoca come oggi, non possiamo parlare di aniconismo, come invece possiamo parlare di aniconismo di Allah, ad esempio, nella cultura islamica.

Il territorio si fa ancora piu’ scivoloso quando, ritornando al passato, e al passato del gioco di sguardi, ragioniamo sul fatto che a volte alcune pratiche, maggiormente rituali, erano dichiaratamente segrete, con gli stilemi tipici dell’esoterico: la prassi seduttiva del segreto svelato, mostrato, diffuso ma a patto che rimanga segreto. Cio’ che Robert Levy, antropologo statunitense, ha definito come advertised secret.
E’ segreto si’, ma lo diciamo in giro, che e’ segreto.
L’abbiamo fatto tutti almeno una volta nella vita.

E oggi, lo yoga e’ nella sua visibilita’ o invisibilita’? O in entrambe?
Nell’epoca in cui versiamo cosi’ tanto delle pratiche nello streaming on line, perdiamo qualcosa, o ci guadagnamo? Siamo in un’ottica di dono visivo o di qualche scambio di beni, materiali o immateriali essi siano?
Io non lo so, da fotografa direi che desidero la fotografia abbia lunga vita, in ogni suo supporto chimico o digitale, da fotografa direi che il troppo stroppia, e che l’abilita’ selettiva e’ parte integrante del mestiere, ma forse non e’ neppure cosi’ vero, che il troppo a volte puo’ essere veritiero di una differenziazione assai ricca, e che stimola la curiosita’. E i criteri estetico-selettivi non sono necessariamente sempre lucidi.
Da insegnante yoga mi e’ stato insegnato invece a non pavoneggiarmi, a lasciare spazio, a non farne vanto, o gioco di potere, allora ci penso sempre due volte a quel selfie in cui faccio chaturanga.
In ultima istanza resto nel mezzo, che forse e’ da ambigui.
Lo faccio o non lo faccio? Non lo so, vedremo, indago.

Vi e’ chi, per mestiere e per logica di comunicazione/condivisione con un pubblico, ha necessita’ di visibilita’. Artisti, cantanti, ballerini, il professore di fronte ai suoi studenti, l’attivista per la sua lotta. Vi e’ anche chi ha bisogno di visibilita’ perche’ rischia l’emarginazione, o il silenzio coatto, e necessita invece della forza, dello sguardo, della voce della comunita’.
Vi e’ poi chi ama farsi fotografare e chi schiva l’obiettivo come fosse uno strumento di tortura. Immagino dipenda, in quest’ultimo caso, semplicemente dal carattere.

Nello specifico, chiunque produca un immagine di se’ in un asana lo fa generalmente per una manciata di motivi, di cui per certo me ne sono persa alcuni:

– vuole condividere un insegnamento, il piu’ delle volte gratuitamente (youtube, instagram, vimeo, facebook, blog personali, etc etc) con il grazioso e buon intento di consigliare, aiutare, guidare, chi da casa guarda. Il video o la foto, in questo caso, hanno un chiaro taglio didattico, con voice off, indicazioni tecniche, ma soprattutto un grosso carico di esperienza e conoscenza delle strutture del corpo.

– vuole promuovere un’attivita’ legata allo yoga, ha dunque funzione propriamente commerciale. In questo caso il range estetico oscilla da produzioni da centinaia di migliaia di euro, e uso di cervelli pubblicitari notevoli, a folkroristiche immagini che promuovono souvenir di spiritualita’ o acrobazia. Insomma, direi che in questo caso la responsabilita’ e’ dell’agenzia di comunicazione, e in chi sceglie l’immagine e la promozione del proprio centro. Certo e’, che in questa selva di prodotti yoga, in qualche modo si deve pure agire per conquistarsi il proprio angolo.

– ci si fa un asana-selfie perche’ “mi va e basta, mi diverte”, ma questa risposta solitamente vale se si fa qualcosa di anomalo, che tira in mezzo perche’ e’ strano e inspiegabile, e gli altri non lo fanno e nessuno ci capisce nel nostro farlo. Che non e’ il caso dell’asana-selfie, considerando che e’ quanto di piu’ mainstream vi sia nell’attualita’ yogica. La risposta dunque vela un non detto, “lo faccio perche’ lo fatto tutti gli altri”. E allora capiamo che su di noi praticanti o insegnanti vince il flusso della comunicazione mediatica, piu’ che una scelta che abbia il sapore della particolarita’ personale.

– ci si fa un asana-selfie per mostrarsi, per fare vedere che si sa fare un asana, o forse, io non lo so, che si sa fare un asana e fotografarsi nello stesso tempo, che si e’ forti, che si ha equilibrio, elasticita’, forza nelle spalle, bei glutei, che si e’ simpatici, belli, in salute. Anche qui, non saprei. Quest’ultimo caso, si riconosce perche’ non hanno alcun indice di intento didattico, non sono tutorial, sono home made, non vi e’ produzione alle spalle, non hanno dichiaratamente scopo commerciale (anche se in alcuni casi si’), ovvero non sono sponsorizzati da centri, associazioni, studi, marchi. In gergo tecnico si dice show off. Una micro esibizione, easy, cozy, spensierata, in cui mi mostro in stato di yoga, o qualcosa del genere. Faccio un asana, selfie, condivido. E aspetto approvazione, o like. Che vi sia ricerca di approvazione ne sono convinta, anche se fa fastidio dirlo, e leggerlo, altrimenti se no passeremo quel poco tempo che ci resta a farci selfie di quanto siamo rigidi, squilibrati, mollucci, imbranati.

Concludo dicendo che non ho le idee chiare a riguardo, mi piacerebbe che questo flusso di fotografie e video intorno agli yoga continuasse, si evolvesse, si modifichicasse, aumentando o diminuendo, che ci stupisca comunque.
Non posso che osservarlo e farne un poco parte anch’io.

Ma se non lo sappiamo fare e non ci guarda nessuno, siamo noi, comunque.
Anche se non lo sappiamo fare e nessuno ci guarda.

E nessuno ci mette un like.

04/12/2023

ENGLISH ORIGINAL VERSION

Random Thoughts on Ta**ra with David Gordon White
November 15, 2018

This time, with great personal emotion, Impossible Yoga has interviewed Professor David Gordon White, one of the most famous scholars of Indology and Ta**ra in the international academic scene. His long university career (Ph.D. at University of Chicago, Hautes Etudes of Paris, Professor of Comparative Religion at University of California, Santa Barbara) has given birth to fundamental texts on the history of ta***ic culture, including Sinister Yogis, The Alchemical Body: Siddha Traditions in Medieval India, Kiss of the Yogini: Ta***ic S*x in Its South Asian Contexts.

Enjoy your reading, and enjoy your future study to all of you interested in knowing articulated and complex histories. A special thanks to David Gordon White for his dedication to this contribution.

From The Alchemical Body: Siddha Traditions in Medieval Indiato Ta**ra in Practice, from Kiss of the Yogini: “Ta***ic S*x” in South Asian Contexts to Sinister Yogis, why do you think the ta***ic culture is important?

A generation of historical research by leading academic researchers has demonstrated that the dominant religious culture of medieval India was ta***ic. Hindu devotion (bhakti) appeared late on the scene and has only been important in certain regions of the Indian subcontinent. Much of the religious culture of India, Nepal, Tibet, China, and Japan remains ta***ic down to the present day. Ta***ic culture was and remains important because it is a direct path to power in the world, as opposed to (or in addition to) salvation in a future life. This was very attractive to medieval and early modern power players (kings, warlords, etc.) who viewed the ta***ic yogis as supernatural power brokers; it remains attractive to much of the South Asian population for whom ta***ic specialists and ta***ic gods are their most powerful protection against sickness, misfortune, injury, and death. All of these strands of ta**ra are grounded in ancient Indian demonology, the science and technique of defending against malign supernatural and human beings. Indian demonology, the foundation of ta**ra, goes back to some 3000 years, to the times of the Vedas.

Mouths, orifices, channels, s*xual fluids, pneumatic circuits, suctions. Is it correct to think that part of the ta***ic culture wanted to reverse the biological order, to boycott the rules of the body, to transgress the social orders?

This is a point that has long been debated by scholars. Was ta**ra a rebellion against the “system, or was it the system itself? Once again, historical context is determinative. During the medieval period in which ta**ra thrived, there was no central political order, no great empire uniting all of India. So in some kingdoms, ta**ra was the mainstream tradition, while in others, it was more of an underground form of expression.

Male and female: ta***ic practices were, for obvious historical reasons, clearly unbalanced in the production of siddhi in male practitioners, but also using females and female physiological products. Is it a submission and incorporation of the feminine element into a purely masculine physical/mental space, or can we see it otherwise?

Alas, ta**ra’s celebration of feminine energy (shakti) did not empower women. Women and their s*xual emissions were generally instrumentalized in so-called ta***ic s*x, and the mighty ta***ic yoginis were supernatural shape-shifters and not human women.

There is an important passage between the ritual ta***ic culture and the moment in which this becomes a textual culture. In Kiss of the Yogini you used a beautiful contemporary formula, distinguishing between Soft Core and Hard Core Ta**ra. Is there actually a margin between practice and text?

It depends whose practice you’re referring to. The daily rituals of India’s great temples, carried out by brahmin specialists, are based on medieval ta***ic scripture. So in this case, mainstream practice has a “soft core” textual basis. On the other hand, village propitiation of ta***ic deities, popular ta***ic demonology and so forth are “soft core” practices for which there is little or no textual grounding. Virtually no medieval temple in all of India was without erotic sculpture on its walls, and while it can’t be proven that all erotic sculpture was “ta***ic,” some of it was. Since image is not text in the strict sense of the term, such sculpture would be evidence of non-textual “hard core” practice, The “hard core” (s*xual) practices of medieval ta**ra are all grounded in ta***ic scriptures, including the ones I used in writing Kiss of the Yogini. So the relationship between practice and text, between “hard-” and “soft-core,” is complicated.

Culture, spiritual practices, hygienic, social, economic and political rules, shaped notions of “body”, in different centuries. What do we talk about when we talk about “ta***ic body”?

“Ta***ic body” is a scholarly heuristic. There is no mention of a “ta***ic body” in ta***ic, medical, yogic, or ritual texts. They simply talk about the body, each in their own way. In some cases, the body is a self-contained universe, in others, it’s an open system dynamically connected to every other body and landform in the universe. It’s really impossible to generalize, even within the realm of ta***ic scripture and practice.

For decades the word Ta**ra has become a rather curious brand. Westerners often fall into that trap in which they believe they can free themselves of their own notion of s*xuality through what they consider “another s*xuality”, attributing to this fantasies, scraps of thought, exoticism. How much does cultural colonialism weigh in all this?

I’m not sure I understand what you mean by cultural colonialism. If you mean “cultural appropriation,” then, yes, Western appropriations of ta**ra has been, in their own misguided way, attempts to appropriate South Asian cultural productions. On the other hand, popular Western fabrications of so-called ta***ic s*x, the stuff you find on Internet and that is sold at “ta***ic workshops” are so far removed from the authentic Indian traditions they claim to be channeling as to be irrelevant.

Since you didn’t include the word “yoga” in this question, I didn’t address the issue of “ta***ic yoga” in my answer. One of the most common terms for a ta***ic practitioner was “yogi”; however, until the early modern period, we do not find ta***ic yogis practicing [hatha] yoga. Yoga, as described in the ninth-century Netra Ta**ra, was of three kinds: 1) being eaten by yoginis; 2) taking over other people’s bodies; and 3) demonology. Other important ta***ic works, like the Malinivijayottara Ta**ra, use “yoga” to denote the entire ta***ic metaphysical system. Since “yoga” has such a wide semantic range, it is arbitrary and misleading to limit one’s discussion of ta***ic yoga to postural practice, or to s*xual aspects of postural practice.

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Our Story

Impossible Yoga e’ una piattaforma per condividere nozioni sullo yoga e uno spazio per praticare nel cuore di Milano.
Un’escursione ai margini dello yoga, dove convivono l’acrobata e il sanscritista, i muscoli e la parola, la disciplina e l’indisciplina, la trasgressione e la norma, osservando gli elementi eterogenei che costituiscono, nelle sue pratiche e nei suoi testi, cio’ che chiamiamo yoga.
Ascoltiamo le voci e leggiamo i testi di insegnanti provenienti da varie tradizioni, di maestri, di accademici e di chi, estraneo alla disciplina, con lo yoga intrattiene una relazione sotterranea e non esplicita.
La pratica viene condivisa attraverso lezioni di gruppo e individuali, immagini e tutorial.
Impossible Yoga e’ un tentativo di rendere possibile lo yoga a chi lo ritiene impossibile e impossibile a chi lo ritiene possibile.

Impossible Yoga is a platform to collect and share notions about yoga.An excurtion to the margins of yoga, where sankritists and acrobats, muscles and words, discipline and undiscipline, transgression and norm, live together.An observation on the heterogeneous elements that constitute what we are used to calling Yoga, between its practices and texts.We listen to voices and read books by teachers coming from different traditions, by masters, by academics, and by who, with yoga, has an underground and non-explicit relation.Yoga practice is shared during group and individual lessons, images and tutorials.Impossible Yoga is an attempt to make yoga possible for those who consider it impossible and impossible for those who consider it possible.



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